#4 L’idea di corpo nella cultura giapponese e suo smantellamento

Fine di #1, 2 e3  L’idea di corpo nella cultura giapponese e suo smantellamento.  Articolo di Hiroyuki Noguchi pubblicato nel 2004. Tradotto dall’inglese dalla Scuola Itsuo Tsuda1.

La filosofia del Kata

E’ il modo in cui vediamo i nostri corpi, sia consciamente che inconsciamente, che determina quali esperienze percettive decidiamo di valutare. Cercando di compiere queste esperienze determiniamo le modalità secondo le quali muoviamo ed usiamo i nostri corpi. In breve ogni movimento compiuto da un essere umano è il riflesso della sua idea di corpo. Questo non si limita al movimento fisico visibile. Per esempio, è vero che
la nostra respirazione è limitata dalla struttura del nostro apparato respiratorio ma ciò che consideriamo un “respiro profondo” è determinato dalla visione individuale del corpo. Analogamente, mentre l’atto di mangiare non può prescindere dalla struttura del sistema digestivo umano, è la nostra idea di corpo che determina esattamente quale sensazione consideriamo soddisfacente e quando sentiamo che abbiamo mangiato abbastanza. Inoltre, mentre l’equilibrio fisico è sottoposto all’influenza della forza di gravità sulla struttura dei nostri corpi, quale sensazione corporea scegliamo di chiamare stabile dipende dalla concezione di corpo individuale.
Se quindi un gruppo di persone possiede un modo particolare di muovere od usare il corpo ne consegue che esse devono condividere una comune visione del corpo. Il modo di sedere formale in Giappone, chiamato Seiza, non può generare altro che un senso di costrizione a molti occidentali. Ai giapponesi tuttavia, sedere nella tradizionale posizione Seiza dava un senso di pace mentale. Questo modo di sedere, con entrambe le ginocchia piegate, genera un senso di completa immobilità. Impedisce alla mente di intraprendere qualsiasi movimento ulteriore, in effetti, eseguire movimenti improvvisi da questa posizione è piuttosto difficile. Sedere in Seiza obbliga ad entrare in uno stato di completa ricettività ed è in questa posizione che i giapponesi scrivono, suonano e mangiano. In momenti di tristezza, di preghiera o di risoluzione, il Seiza è stato indispensabile per il popolo giapponese.

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Il Seiza è un Kata per ricevere: un Kata che realizza le condizioni necessarie per entrare in uno stato di autentica ricettività.
Il Seiza è un tentativo di negare qualsiasi consapevolezza della carne, la carne riflette l’eccesso nell’intenzione umana. Cercando di cancellare le attività volontarie della mente gli antichi hanno scoperto questo metodo di portare armonia al corpo interno richiamando la consapevolezza delle ossa e ricercando un senso di equilibrio tra le ginocchia piegate, la spina dorsale, il bacino, le anche, le caviglie ed altre articolazioni. Praticando il Kata, i vecchi giapponesi enfatizzavano l’importanza della consapevolezza delle ossa rispetto alla consapevolezza della carne. Facendo così riuscirono a negare la mente e a lasciare il corpo – il corpo che apparteneva alla Natura e non al sé – emergere “così com’è”.
Tuttavia, per agevolare la consapevolezza delle ossa, il processo di sedere in Seiza deve seguire alcune regole. L’atto di piegare le ginocchia in sé, non nega la consapevolezza della carne. Per cominciare, bisogna stare in piedi inclinati in avanti con le ginocchia leggermente piegate. In seguito, portare un piede indietro, e, lasciando entrambe le piante dei piedi completamente poggiate a terra, cominciare a piegare le ginocchia a partire dalla gamba posteriore. Il ginocchio in posizione anteriore segue semplicemente. Quando entrambe le ginocchia hanno toccato terra gli alluci si trovano uno sopra all’altro. Eseguendo correttamente questo processo le cosce arrivano a trovarsi completamente parallele al suolo. Se le cosce scendono verso le ginocchia significa che non si è entrati in uno stato
centrato sulle ossa. In questo modo il Kata non riguarda semplicemente la posizione assunta dal corpo. E’ piuttosto l’intero processo di movimento richiesto per realizzare l’esperienza percettiva interiore del “ricevere”.
Questo metodo, l’eseguire un Kata cercando l’equilibrio delle ossa, può essere osservato in quasi tutti i campi della cultura giapponese. Abbiamo ad esempio il Kata del Kyudo, l’arte del tiro con l’arco giapponese. Nella posizione eretta, le gambe sono divarcate in modo che le ginocchia si trovino esattamente sotto i gomiti quando entrambe le braccia sono aperte ed estese lateralmente all’altezza delle spalle; i piedi puntano all’esterno il più possibile. kyudo-tir-arc-japonais

Questa era la postura abitualmente adottata nel Kyudo sino al periodo Edo. Chiunque adotti questa postura comprende immediatamente cosa significhi reggersi sulle proprie ossa. Questa postura inoltre rende molto difficile tendere i muscoli delle braccia. Di conseguenza l’arco non può essere tirato dalla tensione muscolare nelle braccia; l’arciere deve “ricevere” qualcosa in sé per tendere l’arco. Inoltre, nel tiro con l’arco giapponese il bersaglio viene mirato con entrambi gli occhi e non con uno solo. E non è solo l’occhio a mirare. L’arciere vede la sua pancia e cerca di renderla un cerchio perfetto.
Analogamente, il Kata per usare lo hishaku nella cerimonia del tè giapponese, Sado, è piuttosto difficile se non si acquisisce la consapevolezza delle ossa. Lo hishaku viene usato per prendere l’acqua calda dal bollitore, e poi rovesciato per versare l’acqua nella tazza da tè. Ma le regole del Sado impongono che quando l’acqua viene versata nella tazza tutto il braccio deve ruotare contemporaneamente al mestolo. Quando il comune uomo moderno cerca di compire questo gesto succede generalmente che il braccio ruota solamente dal gomito in giù; la parte superiore non si muove.
E’ un atto che può essere compiuto correttamente solo realizzando una profonda consapevolezza delle ossa, attraverso il Seiza.
E’ piuttosto interessante notare che una delle tecniche fondamentali del Sumo consiste nell’afferrare l’avversario per la cintura e proiettarlo ruotando il braccio allo stesso modo, compiendo lo stesso gesto usato per rovesciare il mestolo, durante la cerimonia del tè. Questa tecnica, chiamata Kaina Gaeshi (letteralmente ruotare il braccio superiore) può essere eseguita solo con un uso importante del mignolo. In questo modo la consapevolezza delle ossa si accresce, senza consapevolezza delle ossa Kaina Gaeshi non può essere eseguito.
In qualsiasi campo, i numerosi Kata della cultura giappo-nese condividono tutti un principio strutturale comune, dimostrando l’esistenza di una comune idea di corpo in Giappone. Tutti i Kata sono costruiti senza l’uso della carne. Di conseguenza concetti di tensione e rilassamento sono irrilevanti. Un Bushi (guerriero) che brandisce una spada, un carpentiere che usa un martello, un sarto che maneggia un ago: in ogni caso l’oggetto non è mai costretto dalle mani di chi lo impugna. In qualsiasi momento la spada può scivolare fuori dalle mani del Bushi.
Lo stesso si applica al martello ed all’ago. Sono tutti semplicemente posizionati all’interno del Kata della mano; non sono trattenuti dalla presa. A prescindere dalla leggerezza della tensione, un oggetto trattenuto dalla contrazione muscolare non può scivolare fuori dalla mano se questa non viene rilassata. Mentre gli oggetti posti all’interno del Kata di una mano eseguito attraverso la consapevolezza delle ossa possono scivolare fuori anche se lo stato della mano non cambia. In questo modo la mano che non costringe l’oggetto che impugna non è costretta dall’oggetto.

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In quanto esperienza percettiva interiore, l’accresciuta consapevolezza delle ossa crea la sensazione di entrare negli interstizi della carne. In altre parole si accede al Ma, o intervallo, tra tensione e rilassamento muscolare. Mentre la consapevolezza centrata sulle ossa è il tipo di consapevolezza normale nel Kata, se l’intensità della consapevolezza si accresce ulteriormente il praticante accede a diversi Ma, o confini, all’in-terno del corpo. Questi sono, ad esempio, i confini percettivi tra parti contigue del corpo come anche e glutei o braccia e torso; o i confini tra delle esperienze percettive effettive come estensione e compressione o espansione e contrazione. Una consapevolezza ancora più profonda implica la concentrazione della consapevolezza su uno stato in cui non si è più sé né altro, in cui non si è né l’iniziatore né colui che reagisce. Paradossalmente, questo stato è contemporaneamente uno stato nel quale uno sembra essere sia sé che altro, sia l’iniziatore che colui che reagisce.
L’enfasi portata sul Kata, riscontrabile in ogni aspetto della cultura giapponese, proviene dal fatto che gli antichi giapponesi scoprirono il valore dello stato di “ricettività” in cui viene annullata la volontà individuale. Dal momento che si accede ad uno stato “recettivo”, attraverso il Kata, la capacità di rispon-dere alla propria volontà diventa notevolmente scarsa. Qualsiasi movimento che segue l’ingresso in questo stato diventa interamente dipendente, non dalla volontà, ma da ciò che si “invita” o si “riceve” in sé. Per esempio si può compiere un movimento ricevendo in sé la forza. In base alla visione occidentale del corpo la forza è prodotta dalla tensione dei muscoli, che viene attivata dalla volontà. I giapponesi invece pensavano la forza come qualcosa da ricevere in sé, qualcosa che arriva da un luogo sconosciuto, completamente scollegato da qualsiasi tensione prodotta dalla volontà. La forza era un qualcosa che doveva essere percepito direttamente, senza relazione con la contrazione muscolare. I giapponesi usano l’espressione Chikara gawaku (la forza si accresce) per descrivere questa percezione diretta della forza. La negazione della volontà, implicita nell’atto di entrare nel Kata è ciò che induce l’accrescersi della forza, proveniente dall’ignoto.
Esistono innumerevoli storie, in cui maestri di varie arti compiono atti miracolosi, che sarebbero impossibili attraverso l’uso della forza, nel senso comune del termine. E’ un dato di fatto nel mondo del Budo che uomini anziani di gracile costi-tuzione fossero in grado di proiettare avversari enormi con grande facilità. L’arte del balletto occidentale è innegabilmente una forma di danza bella ed elegante, ma è difficile che un ballerino possa dare spettacoli dopo i quarant’anni. I danzatori tradizionali giapponesi invece, non perdono in forza e bellezza nemmeno all’età di novant’anni. Questo succede unicamente perché il danzatore entra in uno stato di ricettività, in cui la forza, sorgendo indipendentemente dalla sua volontà viene, “invitata” in modo da indurre il movimento.
Ciò che ricerca l’artista giapponese nel Kata, nell’attesa dell’arrivo della forza, è l’esperienza del corpo che si muove spontaneamente, senza il coinvolgimento della volontà dell’artista. Il sarto dice che l’ago “si muove”. Non dice «muovo l’ago». Il calligrafo dice che il “pennello corre” ed il carpentiere afferma che la “pialla avanza”. Queste espressioni, in cui la persona non è mai il soggetto, descrivono il lavoro compiuto attraverso
un tipo di forza che non è volontà o tensione, mostrano che il lavoro viene fatto spontaneamente ed in maniera improvvisata, attraverso l’accoglimento della forza in sé.
La sensazione di “ricevere” ed “invitare” è la base del senso dei giapponesi per l’improvvisazione. Questa non era basata sul libero arbitrio, in contrasto con il concetto di improvvisazione nelle arti moderne, come la musica free-style. Significava che accadevano spontaneamente delle azioni inevitabili, emergenti nel qui e ora. Per questo motivo i gesti improvvisati erano chiamati “naturali” ed il termine giapponese per natura, o naturale, significa “succede da sé”. Chuang-Tzu scrisse di un cuoco che tagliava un bue per il re di Wei. Quando il re gli chiese come la sua lama potesse rimanere affilata anche se tagliava buoi tutti i giorni, il cuoco rispose: “Quando senso e comprensione cessano, lo spirito si muove liberamente” [Kanatani, (1971, pag. 93)]. Il cuoco gli spiegò che, quando taglia la carne, se si concentra senza pianificare o cercare il movimento corretto della lama le crepe nella carne appaiono naturalmente e la lama comincia a muoversi da sé. Questo è il tipo di esperienza condivisa dagli artisti e dagli artigiani giapponesi che ricercano la padronanza della loro arte, o Waza [Kanatani, (1971)].
Di conseguenza la capacità dell’artista era dimostrata prima di tutto dalla sua abilità recettiva, in altre parole dalla perfe-zione del Kata. E secondariamente dal possedere la prontezza necessaria a reagire all’arrivo della forza.
Qui prontezza non significa velocità di reazione, ma piuttosto che l’azione dell’artista in risposta alla forza è “semplicemente corretta”. Cogliere la forza è possibile solo attraverso l’acquisizione del giusto senso di Ki (timing-momento appropriato), Do (grado-intensità) e Ma (interludio-spazio tra-intervallo temporale).
La padronanza del Ki richiede la capacità di catturare l’apparizione iniziale della forza. La parola Sottaku no Ki descrive l’atto della chioccia che becca l’uovo dall’esterno nel momento preciso in cui il pulcino lo becca dall’interno. Questo atto, esempio perfetto di concordanza, è esattamente il senso di prontezza ricercato dai giapponesi. Erano convinti che l’osservazione degli eventi esterni non fosse abbastanza, per cogliere il momento giusto in questo modo. Solo guardando dentro di sé e sentendo l’inizio dell’arrivo della forza questo era possibile. In accordo con la sensibilità dei giapponesi la chioccia non sta osservando oggettivamente l’uovo, sta semplicemente acconsentendo ad alcune richieste che emergono all’interno del suo corpo. I giapponesi credevano in un senso di corrispondenza, uno scambio a livello immateriale, che non implica trasmissione e ricezione di informazione fisica come nel processo di stimolo e risposta. Inoltre si credeva che questa corrispondenza avvenisse solo con l’ingresso in questo nobile stato di ricettività detto Kata. Quindi, per i giapponesi, rispondere significava “corrispondere”. L’amore dei giapponesi per lo Zen è legato al potente senso di prontezza che ritroviamo nei dialoghi Zen. Non è esagerato dire che le arti della poesia Renka e Haiku poterono radicarsi nella cultura giapponese per la stesso motivo. Potremmo anche dire che fu proprio questo senso di prontezza, nel senso più ampio del termine a portare allo spirito giappo-nese il concetto di Ichigo Ichie (una possibilità, un incontro). Questo era il senso di prontezza perseguito nelle arti tradizionali giapponesi.
La padronanza del Do, significa, dopo aver colto il momento giusto, essere in grado di eseguire un movimento con l’intensità adeguata all’emergente senso di forza. Questo movimento deve corrispondere al minimo indispensabile, essere deciso, senza tentennamenti. Lo Shin del corpo, il suo centro, deve muoversi in modo da compierlo. Un movimento dotato della “giusta” intensità, anche se minuscolo, amplifica il senso di forza in modo da farla riverberare nell’intero corpo. Questo è ciò che permette alla forza “invitata” di mantenere la sua energia nel corso di un’attività. Un movimento di questo tipo non esaurisce la forza. Al contrario, la forza viene in realtà amplificata, attraverso l’acquisizione della “giusta” intensità, questa è una delle caratteristiche principali della concezione di movimento nella cultura tradizionale giapponese.
La padronanza del Ma implica l’uso impeccabile degli intervalli tra le azioni. Questo si basa sulla credenza che le pause in un’azione, senza spezzare il Kata, possano creare un’opportunità per l’arrivo di un nuovo senso di forza dall’interno della quiete risonante. E’ all’interno di questa quiete che si può esperire l’attività dell’invisibile, dell’intangibile. Il Ma è quel ritmo sotteso che dà vita a tutte le tecniche artistiche. Lo spazio bianco nelle pitture ad inchiostro, la bellezza dei suoni che vengono naturalmente generati durante la cerimonia del tè, il tokonoma­­, che rappresenta l’uso del “non uso” – il travolgente ritmo della vita nella cultura giapponese è nascosto negli intervalli di Ma dell’attività.
Questa filosofia del Kata era un sistema di tecniche per usare il corpo che coinvolgeva la complessiva visione del corpo dei giapponesi, le loro inclinazioni percettive ed il modo in cui usavano i loro corpi. Questo sistema nato probabilmente du-rante i periodi Kamakura e Muromachi divenne la base della cultura giapponese. Preparava il terreno in cui sarebbero sbocciati tutti i tipi di Waza, ed era la forza propulsiva dell’assimilazione della cultura cinese in terra giapponese. Questo sistema di tecniche corporee, che esisteva al di sotto ed attraverso tutti gli aspetti della cultura giapponese differiva completamente dall’idea occidentale di corpo che veniva diffusa dal governo e ciecamente accettata dalla popolazione dopo la restaurazione Meiji. In questo modo durante centoquarant’anni, a partire dalla restaurazione, il popolo giapponese spianò, con le sue stesse mani, la strada alla disintegrazione del cuore strutturale della sua stessa cultura.

1Journal of Sport and Health Science, Vol. 2, 8-24, 2004. http : //wwwsoc.nii ac jp/jspe3/index.htm.

Sources des images

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  • Jordan Lloyd  Japanese Archers environs de 1860
  • auteur inconnu  cérémonie du thé chanoyu

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