#1 L’idea di corpo nella cultura giapponese e suo smantellamento

Articolo di Hiroyuki Noguchi pubblicato nel 2004. Tradotto dall’inglese dalla Scuola Itsuo Tsuda1.

In quattro sezioni : 1 Lo scenario della morte nella società moderna. 2 Percepire la vita in tutte le cose. 3 L’idea di corpo nell’ascetismo. 4 La filosofia del Kata

Al cuore di una cultura si trova una determinata visione del corpo, questa visione decide quali esperienze percettive questa cultura sceglie di apprezzare. Cercando di compiere queste esperienze, vengono stabiliti alcuni principi per muovere e trattare il corpo, questi principi
stabiliscono poi la base per la padronanza delle abilità essenziali che compenetrano tutti i campi dell’arte, creando delle ricche fondamenta su cui la cultura stessa può prosperare. La cultura del Giappone tradizionale, disintegrata dalla restaurazione Meiji, possedeva, appunto, questo tipo di struttura. L’idea di corpo, le esperienze percettive condivise ed i principi del movimento che esistevano nella cultura tradizionale giapponese erano radicalmente diversi da quelli che arrivarono dall’Occidente e che furono ciecamente disseminati dal governo giapponese a partire dalla Restaurazione Meiji. Questo articolo discute le deboli basi del Giappone moderno in quanto cultura costruita sulla distruzione delle proprie tradizioni ed esplora la possibilità di dar vita ad una nuova cultura guardando alla struttura delle propria perduta tradizione culturale.

Lo scenario della morte nella società moderna

C’è una politica nazionale in Giappone che è continuata senza sosta sino ad oggi, per circa centoquarant’anni, a partire dalla Restaurazione Meiji, nel 1868. E’ la politica dell’occidentalizzazione che ha portato alla disintegrazione continua della visione tradizionale giapponese del corpo e della vita in gene-rale. Accettando questa politica il popolo giapponese acquisì lo stile di vita pragmatico e saturo di tecnologia occidentale di una società modernizzata. Allo stesso tempo, con le sue stesse mani, ha smantellato e cancellato completamente una cultura di bimillenaria tradizione. Non sappiamo ancora chi realmente istigò la più drastica riforma sociale mai avvenuta nella storia giapponese; a quale classe appartenessero, o quali fossero i loro obbiettivi [Oishi, (1977)]. In ogni caso fu scatenata dall’apertura dei porti giapponesi al commercio estero nel 1854, quando lo shogunato Tokugawa, soccombendo alla pressione militare degli Stati Uniti e delle nazioni europee, prese la decisione di porre fine alla sua politica di isolamento durata 200 anni. Questa decisione dello shogunato portò il caos nel paese.
I samurai, furiosi per la codardia dimostrata dallo shogun, insorsero mentre l’esportazione della seta provocò una grave crisi economica a causa del drastico aumento dei prezzi. A causa delle pressioni esterne ed interne lo shogun Tokugawa Yoshinobu non ebbe altra scelta se non quella di rinunciare al potere nel 1867.
La nuova amministrazione Meiji stabilì un sistema imperiale modellato sulla monarchia costituzionale prussiana. Al posto del cristianesimo – il nocciolo della cultura occidentale – instaurò lo Shinto di stato (una forma nazionalistica dello shintoismo) e proseguì rapidamente a ricreare la nazione. Non solo la politica, l’economia e l’industria furono riformate sulla base di modelli occidentali, ma la politica della modernizzazione, dell’occidentalizzazione e del progresso scientifico si estendeva allo stile di vita della popolazione in generale.
A prima vista, questa politica di occidentalizzazione, sembrava un provvedimento mirato a guidare il popolo giapponese ad adattarsi al suo nuovo governo costituito nel breve lasso di tempo di due anni, dopo il collasso dello shogunato. In realtà il suo obbiettivo era di rigettare e smantellare ogni aspetto del Giappone tradizionale attraverso l’inflessibile glorificazione della civiltà occidentale. Questa politica si basava su tre fattori principali: disordine sociale, ordini e regolamenti governativi e controllo dell’informazione, che non lasciavano coesistere la cultura tradizionale con il nuovo ordine.
Le famiglie imperiali e reali furono le prime ad adottare lo stile di vita occidentale, ponendosi come esempio per il resto della nazione generò nella popolazione un desiderio per tutto ciò che era occidentale. In questo modo l’imperatore, il simbolo del Giappone, divenne anche il simbolo dell’occidentalizzazione.
I media seguirono, diffondendo, in maniera superficiale, la glorificazione della civiltà occidentale ed il boicottaggio della tradizione. Lo slogan «Bunmei Kaika» (la fioritura della civiltà) risuonò attraverso la nazione.
Anche gli storicamente adorati alberi di ciliegio selvatico furono tagliati ed usati come legna da ardere in tutto il paese perché ricordavano il precedente sistema feudale.

Hasegawa Kyūzō - Shimizu, Christine: L'art japonais, Flammarion, Public Domain,
1592 Hasegawa Kyūzō – Shimizu, Christine: L’art japonais, Flammarion, Public Domain,

Mentre il someiyoshino, un ibrido di ciliegio creato artificialmente, fu premiato in quanto prodotto della scienza: prospera in prati-camente qualsiasi tipo di suolo, gli alberi fioriscono glorio-samente e quasi simultaneamente. Dà un senso di bellezza uniforme, fiorendo prima che le foglie appaiano sui rami. Ma come altre piante incrociate artificialmente il someyoshino non ha profumo. Non ha ereditato l’intenso profumo dei ciliegi selvatici. Mentre i ciliegi selvatici possono vivere trecento, a volte anche cinquecento anni, il someyoshino dura soltanto settanta, ottant’anni [Horibe, (2003)]. Questo ciliegio artificiale, dalla bellezza uniforme e privato di profumo e longevità dalla mano dell’uomo fu piantato in tutto il paese e divenne il fiore nazionale giapponese. Se paragonassimo la nascita della moderna civiltà occidentale al fiorire di una pianta radicata nel substrato delle culture tradizionali dell’Occidente la modernità in Giappone sarebbe un fiore artificiale senza nessun suolo reale. Il destino dei ciliegi suggerisce la vera natura dell’emergere di una modernità deformata ed artificiale in Giappone.
Naturalmente la distruzione dei ciliegi selvatici era solo una piccola parte dei monumentali cambiamenti che si stavano avverando. Probabilmente la più significativa delle azioni distruttive perpetrate dalla Restaurazione fu l’ordine governativo di separare shintoismo e buddismo. Questa operazione, attuata in modo da poter istituire lo Shinto di stato scatenò il movimento anti-buddista che portò alla distruzione di prege-voli templi buddisti, statue e case da tè in tutto il paese.
Anche la rappresentazione del teatro tradizionale, il Nô, fu proibita dopo la Restaurazione, costringendo quasi tutti gli attori di Nô a cambiare occupazione o a terminare la loro carriera.
In questa atmosfera di rigetto di tutto ciò che fosse in qualche modo tradizionale fu popolarizzata l’occidentalizzazione dell’abbigliamento, inizialmente attraverso le uniformi militari e governative. Allo stesso tempo la cultura alimentare occidentale fu introdotta attraverso i pasti ospedalieri e l’architettura occidentale attraverso le infrastrutture pubbliche. Indossare cravatte e indumenti con bottoni, mangiare manzo e bere latte di mucca, entrare in un edificio indossando le scarpe, tutte queste cose che il popolo giapponese non aveva mai fatto in duemila anni di storia diventarono le prime prove di fedeltà imposte dal governo Meiji.
Il governo proseguì ad emanare un numero crescente di proibizioni e di ordini a cambiare commercio o lasciare il servizio pubblico. Per esempio, con la decisione di introdurre la medicina occidentale come pratica medica ufficiale, il governo si impegnò in uno sforzo enorme per sradicare l’antica pratica della medicina cinese. La resistenza dei dottori della medicina cinese era forte e ci vollero più di quarant’anni perché il progetto si realizzasse. In quel periodo, per stabilire quale delle due fosse superiore, fu creato un ospedale allo scopo di raccogliere dati sull’efficacia di entrambe le medicine nella cura del beriberi. Il risultato della cosiddetta “East-West Beriberi Competition” fu sostanzialmente un pareggio ed i conflitti tra le due scuole si intensificarono, portando addirittura al tentato omicidio di Sohaku Asada, famoso dottore in medicina cinese e leader della resistenza [Fukugawa, (1956)]. Qui vediamo la natura scaltra e calcolatrice della politica di occidentalizzazione attuata dal governo Meiji. Uno sguardo ai giornali di quel periodo rivela una serie di scritti irrazionali: «In confronto agli orrendi liquidi neri preparati dai dottori della medicina cinese guardate quanto sono belle le polveri, bianche come la neve, della medicina occidentale!». Gli operatori della medicina cinese erano costretti ad affrontare queste, quantomeno ingiuste, accuse diffuse dai media.
L’introduzione della medicina occidentale era qualcosa di più di un semplice tentativo di occidentalizzazione della pratica medica. Era, per la sua stessa natura, una politica anti-shogunato. Per esempio, il mantenimento della pratica dell’agopuntura, estranea alla medicina occidentale, sembrava dall’esterno un’ancora di salvezza per i non vedenti, tradizionalmente indirizzati verso questa professione. Tuttavia la pratica dell’agopuntura riconosciuta dallo shogunato era quella giapponese, un sistema creato attraverso una rivitalizzazione ed un sistematico scrutinio dell’agopuntura cinese. Fu questa ad essere proibita e coloro che la praticavano dovettero riconvertirsi alla versione cinese [Machida, (1985)]. In altre parole la politica di occidentalizzazione fu caratterizzata da un completo rifiuto della tradizione giapponese e qualsiasi cosa di origine straniera veniva apprezzata ed accettata.
Studenti di disparate discipline quali l’architettura, la cucina e la medicina furono tutti obbligati ad apprendere le teorie occidentali se desideravano acquisire le licenze ufficiali, che il governo aveva recentemente cominciato ad esigere. Fu attra-verso l’instaurazione di tali sistemi che il governo tentò di interrompere la trasmissione di sapere esperienziale e quindi porre fine alla tradizione del sistema dell’apprendistato. Per esempio, imponendo lo studio delle teorie architettoniche occidentali, basate sul sistema metrico decimale, agli architetti giapponesi, il governo impedì in modo efficace il passaggio del sapere dai maestri carpentieri, che basavano la loro arte sul sistema di misura tradizionale giapponese, ai loro apprendisti. Le metodologie architettoniche tradizionali, che permettevano la costruzione degli edifici lignei più grandi al mondo con una durata di non meno di mille anni, erano basate su un sistema teorico completamente diverso. Cavalcando l’onda dell’adorazione per le teorie occidentali, il governo giapponese ha continuato a forzare l’occidentalizzazione dell’architettura fino ad oggi, senza esaminare e riconoscere il valore dei propri metodi tradizionali. Nel 1959, il governo ha ufficialmente adottato una risoluzione proposta dall’Istituto Architettonico Giapponese, di proibire la costruzione di architetture in legno. Sei anni più tardi ha promulgato un ordine che proibiva l’uso del sistema di misura tradizionale giapponese [Matsuura, (2002)].

verso 1877-1878.
verso 1877-1878.

I codici costruttivi giapponesi promuovono la costruzione di strutture di cemento che tendono a trasformare le città in fortezze, questo sta por-tando alla scomparsa delle strutture in legno, nate da questa terra e da questo clima, che hanno fatto parte dello stile di vita giapponese per duemila anni. Di conseguenza, le magnifiche foreste giapponesi si stanno ora deteriorando.
Il controllo governativo dell’informazione fu attuato anche nell’ambito del sistema educativo, istituito nel 1872. Con il suo programma interamente costruito su teorie occidentali, divenne un caposaldo del processo di occidentalizzazione. Glorificando gli studi occidentali, portò l’intelletto e la sensibilità dei giap-ponesi verso l’ignoranza ed il disprezzo per la loro stessa tradizione culturale. Anche quegli argomenti quali la musica, l’arte e l’educazione fisica, volti a coltivare la sensibilità estetica degli studenti, per non parlare delle materie più generali, svolsero un ruolo importante nello smantellamento della cultura tradizionale e nello spingere il processo di occidentalizzazione. L’insegnamento artistico introdusse i brillanti colori occidentali mentre quelli giapponesi vennero dimenticati; i relativi principi di armonia non vennero più insegnati. La ricca sensibilità giapponese per i colori è evidente, quando guardiamo ai kimono ed ai supporti utilizzati per le calligrafie e le pitture. Un libro di colori campione per la tintura dei kimono del periodo Edo rivela cento tonalità di grigio e quarantotto di marrone, ciascuna con un nome specifico [Nagasaki,(2001)]. L’abilità dei tintori di creare questa enorme varietà di colori con materie prime vegetali è la testimonianza della loro superba tecnica. Ma ancora più stupefacente è il fatto che i sarti, e persino i consumatori, fossero in grado di distinguere tutte queste tonalità. Per i giapponesi il colore era qualcosa che impregnava il materiale; i colori dovevano valorizzare l’inerente qualità del materiale grezzo. I nuovi colori che arrivavano dall’occidente erano, al contrario, qual-cosa che ricopriva. Questo incontro fu causa di sgomento e confusione per la fine sensibilità che i giapponesi avevano avuto sino ad allora nei confronti del colore. Centoquarant’anni dopo vediamo il risultato di questa educazione nel volgare senso del colore delle città del Giappone moderno. Nelle strade, le insegne ed i volantini non mostrano alcun segno di raffinatezza. E’ come se l’uso di colori forti e violenti bastasse ad imitare il senso del colore occidentale. Questa educazione ha certamente  sprecato più di un talento che avrebbe potuto produrre eccellenti dipinti giapponesi [Nakamura, (2000)].

verso 1877-1878.
verso 1877-1878.

Contemporaneamente l’educazione musicale scardinava il tradizionale concetto di suono. La sensibilità giapponese per il suono si è sviluppata attraverso la religione. Un suono gene-rato con profonda e concentrata intensità veniva considerato come capace di eliminare le impurità. Le tecniche del Ki-ai padroneggiate dai preti shinto e dagli asceti delle montagne, il canto dei monaci buddisti ma anche l’atto di pulire erano tutte pratiche religiose basate sul mistero del suono. L’uso dello hataki – una sorta di grosso spolverino di carta e bambù – e della scopa hanno origine nei rituali shinto, che invitavano il divino purificando l’ambiente circostante attraverso l’uso del suono.
Non venivano usati allo scopo di raggiungere una pulizia igenica. Il suono del noh-kan (flauto di bambù usato nel teatro Nô) serviva a quietare i morti, lo shino-bue (flauto di giunco) invitava il morto a visitare questo mondo. Il senso di profondità dato dal suono nella cultura tradizionale giapponese era basato su una sensibilità nei confronti del suono completamente diversa da quella che troviamo nella musica occidentale. Nelle scuole, tuttavia, veniva insegnata unicamente la musica occidentale, con la sua teoria basata su una scala equamente temperata, che costituisce essenzialmente un’eccezione rispetto alle altre tradizioni musicali nate su questo pianeta. Gli studenti che cantavano seguendo le scale tradizionali giapponesi venivano considerati privi di orecchio.
Allo stesso modo l’educazione fisica smantellò i tradizionali modi di muovere il corpo (come spiegherò più avanti in questo articolo), insegnando solo esercizi e movimenti basati sui meccanismi del movimento trasmessi dall’Occidente. Questo portò ad una forte separazione tra le vecchie e le nuove generazioni riguardo alla percezione del corpo, rendendo estremamente difficile la trasmissione della cultura del corpo dai genitori ai figli. Di conseguenza ci sono oggi innumerevoli adulti che non sono in grado di usare correttamente le bacchette, per non parlare del sedersi nella tradizionale posizione seiza.

Giappone 1869-1942
Giappone 1869-1942

Centoquarant’anni di questa educazione direzionata hanno forzato l’intelletto giapponese ad essere usato unicamente per tradurre, interpretare ed imitare la civiltà occidentale. Certa-mente, in questi anni, il Giappone ha prodotto apparecchiature elettroniche di alta qualità ed automobili ironicamente ribattezzate “salotti ambulanti”, ma queste cose non hanno nulla a che vedere con la cultura giapponese. Sono piuttosto espressioni dello shock esperito dai giapponesi nell’incontro con la moderna civiltà occidentale. In altre parole, sono il riflesso, nell’occhio giapponese, dell’immagine della civiltà moderna. Gli strani ed esageratamente soffici sedili ed ammortizzatori delle auto sono la simulazione della dolce e morbida sensazione provata dai giapponesi, fino ad allora abituati unicamente ai duri tatami, quando conobbero per la prima volta i sofà occidentali. Gli eccessivamente pragmatici prodotti elettronici con molte più funzioni di quante siano in realtà utili all’utente medio sono espressione dell’impatto dell’accecante luce delle lampadine elettriche su un popolo abituato a vivere nella fioca luce delle candele giapponesi.
La lunga politica di chiusura del Giappone ha pervertito l’incontro con l’Occidente. Mancando qualsiasi comune denominatore con le moderne società occidentali, i giapponesi hanno trasformato il loro forte senso di disparità in glorifica-zione e adorazione, come mezzi di autoprotezione.
A partire dalla Restaurazione Meiji, il Giappone è riuscito, con un certo successo, a smantellare la propria cultura tradizionale. Non è riuscito, tuttavia, a creare una nuova cultura attraverso l’assimilazione della civiltà occidentale. Questo è assolutamente naturale in quanto una cultura non può nascere unicamente dall’imitazione e dalla brama. Accecati dalla sfolgorante immagine della civiltà moderna i giapponesi non sono stati in grado di incontrare la vera cultura che ha fatto nascere quella civiltà, che l’ha nutrita e l’ha fatta funzionare. In altre parole, non hanno mai capito veramente le tradizio-nali sensibilità dei popoli occidentali e questa è la tragedia del Giappone attuale. Ovviamente, non è possibile trapiantare una cultura. La cultura di un paese nutrita dall’accumulazione di esperienze in secoli di tradizione, appartiene alla terra in cui è nata, e solo a quella. Non permette assorbimento o imitazione da parte di un’altra. Il pensiero scientifico, fondato sul pragmatismo ed il positivismo, che il Giappone tentò così avidamente di emulare a partire dalla Restaurazione, deve essere stato un prodotto inevitabile della cultura – della terra e dello spirito – dei paesi occidentali. Gli scienziati giapponesi che partecipano a raduni accademici internazionali per la prima volta sono sempre sorpresi di scoprire che gli scienziati occidentali menzionano Dio senza esitazioni. Questo succede perché in Giappone essere uno scienziato implica necessariamente essere un ateo e un materialista. Per i giapponesi post-Restaurazione la scienza era virtù, ma anche religione o fede.
Il Giappone moderno è quindi diventato un’anomalia nella storia mondiale – un puro prodotto della “modernità”, eretto senza possedere una vera cultura come fondamento. E’ una nazione in cui avvengono gli esperimenti di “modernità” più estrema.
Dopo tutto, la “cultura” non è altro che l’abilità di rendere ricco e bello il mondo in cui viviamo. E’ l’abilità percettiva di convertire e ricomporre lo spazio-tempo oggettivo in uno spazio-tempo umano. Attraverso la scoperta e la condivisione di questa abilità, la “cultura” permette ad un popolo ed alla terra a cui appartiene di apparire in tutta la loro bellezza. Allo stesso tempo, possiede un pericoloso potenziale autodistruttivo poiché per natura, la sua esistenza ed il suo valore non possono essere percepiti da coloro che vivono al suo interno, che ne vengono supportati.
Sono gli scenari della nascita e della morte che rappresentano, nel modo più diretto, la cultura di qualsiasi paese. Lo scenario della morte nel Giappone attuale è meccanizzato. Nel contesto dell’ospedale le persone vengono tenute in vita da delle macchine. Dietro le porte chiuse delle loro sale d’attesa, i dottori la chiamano “sindrome spaghetti”. Questo è lo scenario che troviamo nei reparti geriatrici, dove i nostri anziani hanno braccia e gambe bloccate da cinghie per impedire un loro qualsiasi inconscio tentativo di rimuovere i numerosi cateteri attaccati ai loro corpi. Ciò che vediamo qui non è l’immagine sacra di una persona che entra nel capitolo finale della sua vita. Non è l’immagine di trasmissione da genitore a figlio della parola finale e profondissima, il rendere il proprio “ultimo respiro”, che nella storia è stato considerato uno degli atti più importanti della vita umana. Solo trenta minuti dopo la morte, i venditori di servizi funebri si presentano alla famiglia. In anni recenti, i mercanti in cerca di organi da trapiantare arrivano anche prima. Questa vuota, “scientifica”, immagine della morte rappresenta la modernità della nostra nazione. Questo è accaduto perché la società moderna ha separato il corpo dalla vita, dalla personalità, dal’individuo. I nostri moderni governi “amanti della libertà” forse non governano le vite dei cittadini, ma governano certamente i loro corpi. Mentre riconoscono la libertà in molti altri ambiti, nessun paese “sviluppato” rico-nosce la libertà di scelta per quanto riguarda il trattamento medico. Se i nostri corpi fossero considerati inseparabili dalle vite che conduciamo la scelta del trattamento medico e del modo di nascere e di morire dipenderebbero unicamente dalle convinzioni di ciascuno. Le nazioni moderne però, hanno abbracciato la medicina occidentale, che considera il corpo e la vita sfere separate, come metodo ufficiale.
Cercano quindi di controllare la nascita, il trattamento medico e la morte. In altre parole i nostri corpi. Nella medicina occidentale il corpo è solo uno strumento: una macchina al servizio della volontà del suo possessore. Ricevere un trattamento medico quindi non è diverso dal riparare una macchina rotta e la morte diventa la mera produzione di materiale di rifiuto. Gli ospedali si trasformano in stabilimenti per il trattamento di rifiuti industriali, in cui il trapianto di organi è parte della loro attività di riciclaggio. Chiunque percepisca qualcosa di strano nell’immagine meccanica della morte che è oggi la norma negli ospedali giapponesi capirà immediatamente che la scienza in sé non può mai diventare “cultura”.
Salutando oggi il ventunesimo secolo, è forse giunto il momento di riconsiderare la disintegrazione della nostra cultura tradizionale che cominciò con la restaurazione Meiji. Il tempo passato non può mai essere reclamato, ma possiamo almeno capire il nostro passato e di essere in grado di piangerne autenticamente la perdita. Dovremmo guardare indietro alla nostra perduta cultura in modo da andare avanti verso la formazione di una nuova cultura per l’avvenire.

Capitolo successivo : #2 Percepire la vita in tutte le cose

1Journal of Sport and Health Science, Vol. 2, 8-24, 2004. http : //wwwsoc.nii ac jp/jspe3/index.htm.

Immagini :

  • « Cherry Tree » from Cherry and Maple, Color Painting of Gold-Foil Paper Shimizu, Christine: L’art japonais, Flammarion https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Cherry-tree.jpg
  • Stillfried & Andersen. Views and costumes of Japan d’après des négatifs de Raimund von Stillfried, Felice Beato et autres photographes. Vers 1877-1878.
  • Stillfried & Andersen. Views and costumes of Japan d’après des négatifs de Raimund von Stillfried, Felice Beato et autres photographes. Vers 1877-1878.
  • Genthe, Arnold, 1869-1942, photographer. Arnold Genthe Collection (Library of Congress). Negatives and transparencies. http://www.loc.gov/pictures/item/agc1996015771/PP/