Il ki, una dimensione a pieno titolo

Di Régis Soavi

«Il ki appartiene alla sfera del sentire e non a quella del sapere». Itsuo Tsuda

Appena si parla del ki si passa per un mistico, una specie di strampalato: «Non è scientifico, nessuno strumento, nessuna macchina è capace di provare, di dimostrare che il ki esista». Sono perfettamente d’accordo. Effettivamente se si considera il ki come un’energia super potente, una specie di magia capace di proiettare le persone a distanza o di uccidere solamente grazie a un grido, come si credeva con il kiai, si rischia di attendersi dei miracoli ed essere molto velocemente delusi.

Il ki una filosofia orientale?

Qual è questa filosofia « orientale » a cui non avremmo accesso? Esiste un dominio specifico riservato a qualche adepto, a qualche discepolo prescelto, oppure questa conoscenza è alla portata di tutti, e per di più, senza complicarsi la vita. Voglio dire facendo una vita normale, senza appartenere a un’élite che abbia avuto accesso a conoscenze segrete, senza fare pratiche speciali, nascoste e distribuite al contagocce, ma più semplicemente avendo un lavoro, dei figli, ecc. Quando si pratica l’Aikido, ovviamente si è in una ricerca tanto filosofica che pratica, ma è una ricerca « exoterica » e non « esoterica ».

Itsuo Tsuda ha scritto nove libri, creando così un ponte tra l’Oriente e l’Occidente per permetterci di comprendere meglio l’insegnamento dei maestri giapponesi e cinesi, per renderlo più concreto, più semplice e accessibile a tutti. Non è necessario essere orientale per comprendere, sentire di cosa si tratti. Ma è vero che nel mondo in cui viviamo bisogna fare un piccolo sforzo. Uscire dalle nostre abitudini comportamentali, dai nostri riferimenti. Avere un altro tipo di attenzione, un altro tipo di concentrazione. Non si tratta di ripartire da zero ma di orientarsi diversamente, di condurre la nostra attenzione (il nostro ki) in un altro modo.
Per prima cosa, dobbiamo sbarazzarci dell’idea, molto cartesiana, secondo la quale il ki sarebbe una sola ed unica cosa, quando invece è multiplo. Ammettere anche che il nostro corpo è capace di sentire delle cose che sarebbero difficili da spiegare razionalmente, ma che fanno parte della nostra vita quotidiana, come la simpatia, l’antipatia, l’empatia. Le scienze cognitive tentano a suon di neuroni specchio e altri metodi di decorticare tutto ciò, ma questo non spiega tutto, e anche a volte complica le cose.
In ogni modo ad ogni situazione c’è una risposta, ma non si può analizzare tutto quello che si fa ad ogni istante in funzione del passato, del presente, del futuro, della politica o del meteo. Le risposte sorgono indipendentemente dalla riflessione, sorgono spontaneamente dal nostro involontario, che queste risposte siano buone o cattive, l’analisi ce lo dirà in seguito.

Il ki in Occidente

L’Occidente conosceva il ki in passato, si chiamava pneuma, spiritus, prana, o semplicemente soffio vitale. Oggi ciò sembra molto desueto. Il Giappone ha conservato un utilizzo molto semplice di questa parola che si può ritrovare in moltissime espressioni, che cito più avanti, riprendendo un passaggio di un libro del mio Maestro.
Ma nell’Aikido che cos’è il ki?
Se una Scuola può e deve parlare del ki, è proprio la Scuola Itsuo Tsuda, e questo ovviamente senza pretenderne l’esclusività, ma semplicemente forse perché il mio Maestro aveva basato tutto il suo insegnamento sul ki, che aveva tradotto con respirazione. È per questo che parlava di una »Scuola della respirazione »: «Quando uso la parola respirazione, non parlo di una semplice operazione biochimica di combinazione ossigeno-emoglobina. La respirazione è allo stesso tempo vitalità, azione, amore, spirito di comunione, intuizione, premonizione, movimento.»*
L’Aikido non è un’arte di combattimento, neanche di autodifesa. Quello che ho scoperto con il mio Maestro è l’importanza della coordinazione della respirazione con il mio partner, come mezzo per realizzare la fusione di sensibilità qualsiasi sia la situazione. Itsuo Tsuda ci spiegava attraverso i suo testi ciò che gli aveva trasmesso il suo Maestro Morihei Ueshiba. Per trasmettercelo in modo più concreto, durante quella che chiamava « la prima parte » – la pratica solitaria, che chiameremmo oggi Taiso – al momento dell’inspirazione, pronunciava KA, e all’espirazione MI. Certe volte ci spiegava: «KA è il radicale di Fuoco Kasai in giapponese, e MI è il radicale di Acqua Mizu». L’alternanza dell’inspirazione e dell’espirazione, la loro unione crea Kami che si può tradurre con “il divino”. «Ma attenzione, ci diceva, non si tratta del dio dei cristiani né di quello di una qualsiasi religione ma, se avete bisogno di riferimenti, si può dire che è dio l’universo, dio la natura, o semplicemente la vita».
C’era al dojo un disegno fatto con l’inchiostro di china e tracciato dal Maestro Ueshiba che conteneva quattordici forme molto semplici che chiamavamo Futomani perché O Sensei aveva detto che gli era stato dettato da Ame-no-Minaka-nushi: il Centro Celeste. Itsuo Tsuda ne dà spiegazione nel suo libro Il dialogo del silenzio.* Grazie a ciò ho compreso meglio le direzioni che prendeva il ki quando aveva una forma.

Disegno eseguito dal Maestro Ueshiba
Disegno eseguito dal Maestro Ueshiba

Ritrovare, riprendere contatto con ciò che preesiste nel più profondo di noi

Il fondatore parlava di Haku no budo e di Kon no budo: kon è l’anima essenziale che non deve essere soffocata, ma diceva anche che non si deve trascurare l’anima haku che assicura l’unità dell’essere fisico.
Una volta ancora si parla dell’unità.
Se la nostra pratica si chiama Ai ki do: « via d’unificazione del ki », è proprio perché questa parola ki ha un senso.
La pratica concreta ci permetterà di comprenderla, meglio di lunghi discorsi. E tuttavia bisogna tentare di spiegare, tentare di fare passare questo messaggio così importante, perché senza questo la nostra arte rischia fortemente di diventare un combattimento «Che il più forte, il più abile o ancora il più furbo vinca», oppure una danza esoterica, mistica, elitaria, o settaria.
E tuttavia noi conosciamo bene il ki, lo sentiamo a distanza. Per esempio quando camminiamo in una stradina di notte, e di colpo sentiamo una presenza, sentiamo uno sguardo sulla nostra schiena e malgrado ciò non c’è nessuno! Quando all’improvviso notiamo, su un tetto vicino, un gatto che ci guarda. Semplicemente un gatto, o una tenda che si abbassa furtiva. Lo sguardo è portatore di un ki forte che tutti possono sentire, anche di schiena.
Una delle pratiche di Seitai do chiamata Yuki consiste nel posare le mani sulla schiena di un partner e far circolare il ki. Non si tratta in alcun modo di fare l’imposizione delle mani per guarire qualcuno che a priori non è malato, ma di accettare di visualizzare la circolazione del ki, questa volta come un fluido, come dell’acqua che scorre. All’inizio non si sente niente o ben poco da parte dell’uno come dell’altro. Ma anche in questo caso poco a poco scopriamo il mondo della sensazione. Si può dire che è una dimensione a pieno titolo nella più grande semplicità. È semplice, è gratuito, non è legato a nessuna religione, si può fare a tutte le età e quando si comincia a sentire questa circolazione del ki, la pratica dell’Aikido diventa talmente più facile. L’esercizio di kokyu ho per esempio, non può farsi senza il kokyu, quindi senza il ki, a meno che diventi un esercizio di forza muscolare, un modo di vincere un avversario.
Non avrei mai potuto scoprire l’Aikido che il mio Maestro insegnava se non avessi volontariamente e con caparbietà cercato in questa direzione. Nella ricerca sensitiva, attraverso tutti gli aspetti della vita quotidiana per comprendere, sentire e ampliare questa comprensione senza mai rinunciare.

Ambiente

Il ki è anche ambiente, di conseguenza, per praticare c’è bisogno di un luogo che permetta la circolazione del ki tra le persone. Questo luogo, il dojo, deve secondo me, ogni volta che sia possibile, essere « dedicato » a una pratica, una Scuola. Itsuo Tsuda considerava che entrando nel dojo ci si sacralizzava, e per questo salutavamo salendo sui tatami. Non è un luogo triste dove le persone «devono avere uno sguardo imbronciato e costipato. Al contrario, bisogna mantenervi uno spirito di pace, di comunione e di gioia.»* L’ambiente del dojo non ha niente a che vedere con quello di un club o di una sala polisportiva che si affitta per qualche ora la settimana e che è utilizzata, per farla rendere, da diversi gruppi che non hanno niente a che vedere tra loro. Il genere di locale, di palestra dove si arriva, ci si allena, poi una doccia e «ciao»: nel migliore dei casi una birra nel bar all’angolo, giusto per parlare un po’ gli uni con gli altri. Quando si conosce il ki, quando si comincia a sentirlo e soprattutto quando si vuole scoprire cosa si nasconde dietro questa parola, un luogo come il dojo è veramente tutta un’altra cosa. Immaginate un posto calmo in un piccolo passaggio parigino in fondo al ventesimo Arrondissement. Attraversate un piccolo giardino e al primo piano di una palazzina molto semplice si apre « Il Dojo ».

Dojo
Dojo

Ci venite tutti i giorni se volete, perché ogni mattina c’è una seduta alle sette meno un quarto: siete a casa vostra. Avete il vostro kimono su un appendino negli spogliatoi, la seduta dura più o meno un’ora, poi fate colazione coi i vostri partner nello spazio adiacente, o andate di corsa al lavoro. Il sabato e la domenica si dormire fino a tardi, la seduta è alle otto.
Spiegare il ki è una cosa difficile perché solo l’esperienza lo fa scoprire. E per questo bisogna creare le condizioni che permettano questa scoperta. Il dojo fa parte degli elementi che facilitano enormemente la ricerca in questa direzione.

Riattivare la circolazione del ki, ma anche sciogliere quei legami che ci bloccano e offuscano la nostra visione del mondo

Poco a poco il lavoro si fa, i nodi si sciolgono, e se accettiamo che si sciolgano si può dire che il ki ricomincia a circolare più liberamente. Circola in quel momento in quanto energia vitale, è possibile sentirlo, visualizzarlo, renderlo in qualche modo cosciente. Perché delle tensioni inutili, che non riescono a liberarsi, irrigidiscono il nostro corpo. Per rendere la cosa più chiara possibile, si potrebbe dire che è più o meno come se un tubo per innaffiare fosse tappato. Rischia di scoppiare a monte. L’irrigidimento obbliga il corpo a reagire per sopravvivere. Si producono allora delle reazioni inconsce che agiscono al livello dei sistema involontario. Per evitare questi blocchi, avvengono delle mini-perdite di questa energia vitale e a volte anche delle perdite più importanti, per esempio nelle braccia, al livello del koshi e principalmente alle articolazioni. La conseguenza immediata è che le persone non riescono più a praticare con fluidità ed è la forza che compensa la mancanza, si irrigidiscono parti del corpo che si mettono a reagire come tanti cerotti o ingessature per impedire queste dispersioni della forza vitale. È per questo che è così importante lavorare sul fatto di sentire il ki, di farlo circolare. All’inizio è la visualizzazione che ce lo permette, ma man mano che si approfondisce la respirazione (la sensazione, la sensibilità al ki), se si resta concentrati su una pratica non dura, se ci si vuota lo spirito, si può scoprire, vedere, sentire la direzione del ki, la sua circolazione. Questa conoscenza ci permette si usarlo e la pratica dell’Aikido diviene facile. Si può cominciare a praticare la non resistenza: Il Non-fare.

La sensibilità naturale delle donne al ki

Le donne hanno di solito più sensibilità rispetto al ki o, più esattamente, la conservano maggiormente, se non si deformano troppo per difendersi in questo mondo di uomini in cui tutto è regolato secondo i criteri e i bisogni della mascolinità, dell’immagine della donna che viene trasmessa e dell’economia. La loro sensibilità viene dal bisogno di conservare nel corpo la flessibilità per poter partorire in modo naturale e occuparsi dei neonati. È una flessibilità che non si acquisisce nelle palestre, di bodybuilding o di fitness, è piuttosto una tenerezza, una dolcezza che saprà in caso di bisogno essere ferma e senza nessuna mollezza quando sarà necessario. Il neonato ha bisogno di tutta la nostra attenzione ma non parla ancora. Non può dire; «Ho fame, ho sete, sono stanco», o anche « Mamma, sei troppo nervosa, calmati, e dì a papà di parlare meno forte, che mi fa paura». Grazie alla loro sensibilità naturale, le donne sentono i bisogni del bambino, hanno l’intuizione su ciò che bisogna fare e il ki passa tra la madre e il bambino. Quando il padre, sempre molto razionale, non comprende, la madre sente e di colpo sa. 2011-07-20 at 08-21-28

Anche se una donna non è madre, anche se è giovane e senza nessuna esperienza, è il corpo che reagisce, è lui che ha questa sensibilità naturale al ki ed è per questo, penso, che ci sono tante donne nella nostra Scuola. Niente potrebbe essere fatto senza il ki: è per questo che è al centro della nostra pratica. Noi mettiamo la nostra sensibilità in questa direzione e così si può vedere il mondo e le persone non solo a livello dell’apparenza ma molto oltre, nella loro profondità, ciò che c’è dietro la forma, ciò che la struttura, o che la conduce.

Ecco alcuni esempi che dava Itsuo Tsuda, estratti dal libro Il Non-fare:

«La cosa più difficile da capire nella lingua giapponese è la parola ki».
In effetti, sebbene i Giapponesi la impieghino centinaia e centinaia di volte al giorno, senza rifletterci, è praticamente, e direi anche teoricamente, impossibile trovare il suo equivalente nelle lingue europee.
Se la parola, presa isolatamente, rimane intraducibile in francese, non è tuttavia impossibile tradurre le espressioni comuni in cui essa si trova incorporata. Eccone qualche esempio:
ki ga chiisai: letteralmente, il suo ki è piccolo. Si pone troppi problemi per niente;
ki ga okii: il suo ki è grande. Non si preoccupa per cose da poco;
… ki ga shinai: non ho ki per… Non ne ho voglia. Oppure, ciò va oltre le mie possibilità;
… ki ga suru: fa del ki per… Ho fiuto, ho il presentimento, sento intuitivamente;
waru-gi wa nai: non ha cattivo ki, non è cattivo, non ha cattive intenzioni;
ki-mochi ga ii: lo stato del ki è buono; mi sento bene;
ki ni naru: ciò attira il mio ki, non riesco a liberarmi la mente da questa idea. Qualcosa di strano, di anormale, cattura la mia attenzione, mio malgrado;
ki ga au: il nostro ki coincide, siamo sulla stessa lunghezza d’onda;
ki o komeru: concentrare il ki. In fatto di concentrazione, non ho visto da nessun’altra parte esempi portati così in alto come in Giappone. […]
Ki-mochi no mondai: è condizionato dallo stato del ki. Non conta l’oggetto, il risultato tangibile, ma è il gesto, è l’intenzione che conta. . […]
Si potrebbero citare ancora diverse centinaia di espressioni con la parola ki.
Se i Giapponesi sono per la maggior parte incapaci di dire che cosa sia il ki, ciò non impedisce loro di sapere istintivamente in quale momento bisogna dirlo o non dirlo».

Itsuo Tsuda aveva cominciato l’Aikido all’età di quarantacinque anni, non era per niente uno sportivo ma la sua solo presenza trasformava tutto l’ambiente del dojo. Mi piacerebbe raccontarvi un aneddoto a proposito di uno degli esercizi che facevo negli anni settanta, quando il mio Maestro aveva già più di sessant’anni. Quando superavo il portone del cortile in fondo al quale si trovava il dojo, mi fermavo un istante, chiudevo gli occhi e cercavo di sentire se « egli » c’era. All’inizio non funzionava troppo, erano colpi di fortuna, frutto del caso. Poco a poco ho capito: non dovevo cercare di sapere. Allora ho cominciato a « svuotarmi », a smettere di pensare ed è successo. Sapevo ogni mattina se era arrivato o no. Sentivo la sua presenza appena mi avvicinavo al dojo.
A partire da quel momento qualcosa si è trasformato in me. Avevo infine compreso una piccola parte del suo insegnamento, e soprattutto, avevo verificato che il ki non faceva parte dell’irrazionale, che era concreto, e che la sua percezione era accessibile a tutti perché per me era stata accessibile.

Articolo di Régis Soavi sul tema del ki ( ), pubblicato in Dragon Magazine (speciale Aikido n° 15) nel mese di gennaio del 2017.

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Note:
* Itsuo Tsuda, Il Non-fare – Ed. Yume, 2014, p. 29.
* Itsuo Tsuda, Il Non-fare – Ed. Yume, 2014, p. 18.
* Itsuo Tsuda, Il dialogo del silenzio, p. 95-97.
* Itsuo Tsuda, Cuore di cielo puro, p. 90.
* Itsuo Tsuda, , Il Non-fare – Ed. Yume, 2014, p. 27 -29.