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Vedere

Di Régis Soavi

“Il maestro non chiede altro che essere derubato del proprio insegnamento che, per lui, è di una semplicità estrema, ma che, per gli altri appare misterioso, incomprensibile, inverosimile.” (Tsuda Itsuo, Le Triangle instable, Le Courrier du Livre, 1980, p. 132.)

Vedere, sentire

Anche se si inizia l’Aikido con delle idee superficiali provenienti dal mondo che ci circonda, è importante che poco a poco esse si avvicinino alla realtà e diventino uno strumento per riappropriarsi del corpo, il nostro corpo autentico.

Ad ogni seduta che conduco, dopo la prima parte che ognuno esegue da solo ma in armonia con gli altri, e che è basata essenzialmente su degli esercizi di circolazione del Ki, comincio con la dimostrazione di una tecnica che, a priori, molti praticanti già conoscono. Tutta l’arte della dimostrazione consiste nel far passare un messaggio attraverso il movimento effettuato. Vi è l’avvio di un dialogo, non è solamente una tecnica e neanche un modo di fare perché ogni praticante, in rapporto al suo livello, alla sua attenzione, come alla sua capacità del momento, deve potervi trovare quello che gli è necessario per approfondire la sua pratica. Si tratta più di una trasmissione che di qualsiasi altra cosa. Insisto su un elemento, la precisione, la distanza, o qualsiasi altra particolarità, affinché qualcosa che tengo a rendere concreto sia ben visibile e diventi una forma evidente per la semplicità con cui lo mostro e affinché, attraverso il lavoro e l’allenamento che seguono, il corpo nel suo insieme non debba più riflettere ma agisca naturalmente ritrovando la spontaneità.

Itsuo Tsuda calligraphie ciseler un insecte graver une fleur

Cesellare un insetto, incidere un fiore

C’è un’espressione comune in Cina, un proverbio, che significa “Lavoro facile” di cui i primi due ideogrammi sono come la calligrafia in stile piccolo sigillo (sigillare) di Tsuda sensei: 雕蟲小技 cesellare insetto piccola tecnica.

Questa calligrafia (pagina a fianco) può quindi esprimere: “L’incisione di un fiore è molto facile, come anche la scultura di un insetto”.

Il proverbio vuol dire che tutti possono incidere o disegnare un piccolo fiore poiché è un lavoro semplice e facile da realizzare, ma a sua volta questo indica che solo i grandi maestri possono realizzare un’opera notevole. Tutto dipende dal kokyu. Tsuda sensei si esprime sul significato di questa parola nel suo secondo libro La via della spoliazione. È raro poter disporre di una tale definizione, semplice e precisa allo stesso tempo, che permette a noi Occidentali, a priori non preparati, di comprendere il suo contenuto:

“Nell’apprendimento di un’arte giapponese è sempre questione di ‘kokyu’, che è l’equivalente propriamente detto della respirazione. Ma questa parola significa anche abilità nel fare qualcosa, il trucco del mestiere. Quando non si ha ‘kokyu’, non si può eseguire qualcosa come si deve. Un cuoco ha bisogno di ‘kokyu’ per servirsi bene del proprio coltello, e l’operaio per i propri utensili. Il ‘kokyu’ non si spiega, si acquisisce. […]

Quando si acquisisce il ‘kokyu’, si ha l’impressione che utensili, macchine, materiali, fino ad allora ‘indomabili’, divengano improvvisamente docili ed obbediscano ai nostri ordini senza opporre resistenza.
Il ki, il kokyu, respirazione, intuizione, ecco i temi intorno ai quali ruotano le arti ed i mestieri del Giappone. Costituiscono il segreto professionale, non perché lo si voglia custodire come un brevetto d’invenzione o come mezzo per guadagnarsi il pane, ma perché è intrasmissibile intellettualmente. La respirazione, è l’ultima parola, il segreto supremo dell’apprendimento. Solo i discepoli migliori vi accedono dopo anni di grandi e continui sforzi.” (Itsuo Tsuda, La via della spoliazione, Yume Editions, 2016, p. 35-36.)

Il ruolo dell’insegnante

Uno dei ruoli dell’insegnante – ed è ben lungi dall’essere il suo unico compito – è di agire, tra l’altro, come una sorta di direttore d’orchestra. Dà il tempo, propone diversi modi di interpretare una tecnica, di portarla in una direzione con lo scopo di conferirgli tutto il suo potenziale, allo stesso modo del Maestro d’orchestra dà delle indicazioni sul “come interpretare” un brano musicale mettendo l’accento su una nota, un insieme di note, un tratto particolare. L’insegnante come il direttore d’orchestra ha un ruolo molto importante e con la sua maniera di condurre una seduta di Aikido può renderla noiosa o accattivante; troppo rapida e senza precisione per esempio, la seduta può non centrare il proprio obiettivo nonostante l’intenzione fosse buona; come un direttore d’orchestra può far “deragliare” un brano musicale che era di grande sensibilità se si mostra troppo rigido nella sua maniera di dirigere. Né rigidi né troppo molli, allo stesso tempo morbidi e convincenti, sia l’uno che l’altro danno la propria interpretazione di quello che hanno sentito, di quello che hanno compreso della propria arte, sia della musica sia della seduta di Aikido che conducono. Un altro direttore d’orchestra o un altro insegnante vedranno altre cose, altri accenti da evidenziare, ognuno di loro insisterà su differenti aspetti.

I rapporti con i musicisti come con gli allievi sono anch’essi determinanti. Se si comporta in modo dittatoriale, colui che conduce non avrà l’adesione di quelli che dovrebbero seguirlo, otterrà al massimo una sottomissione che non potrà che rendere l’opera musicale banale o il corso di Aikido senza anima e senza gioia. Sull’esempio del direttore d’orchestra che non deve dimenticare soprattutto di non essere il compositore e che deve rispettare l’opera per quello che è, o che pensa o sente che sia, l’insegnante nelle arti marziali non è il creatore di quest’arte che desidera sviluppare e far conoscere, ne è l’interprete per quanto geniale esso possa essere. Il compositore stesso, come Beethoven credo, diceva che non faceva altro che trascrivere la musica che sentiva e che preesisteva nell’universo che lo circondava. Allo stesso modo, noi non facciamo altro che interpretare quello che faceva O sensei, quello che conosciamo, quello che abbiamo potuto percepire dai video dell’epoca, quello che diversi maestri hanno saputo trasmetterci e, più precisamente, quello che personalmente ho potuto scoprire grazie al contatto diretto con Tsuda sensei durante tutti questi anni. Ma O sensei stesso considerava la sua arte come qualcosa che gli era stata data, trasmessa da qualcosa di più grande di lui, qualcosa che percepiva e che provava a comunicare attraverso i suoi movimenti, la sua persona, le sue parole, la sua postura, o semplicemente con la sua presenza.

Resta il fatto che ogni seduta è una sfida e dipende dall’ambiente che siamo riusciti a creare. Il grande direttore d’orchestra Sergiu Celibidache riteneva che, quale che fosse il numero di prove, l’impegno di ogni musicista, l’attenzione del pubblico, tutto poteva essere rimesso in discussione all’ultimo momento. Il concerto, come momento di verità ultima, dipende da elementi a volte imprevedibili che, favorevoli o meno, cambiano il corso dell’evento, della dimostrazione. Il ruolo dell’insegnante consiste nel permettere ad ogni allievo di dispiegare le proprie capacità anche al di là di quello che ognuno di loro può concepire o percepire.

Un lavoro sul corpo

È grazie alla sincerità del lavoro sul corpo che possiamo farlo uscire dall’isolamento della nostra struttura mentale alienata dalle abitudini di ragionare e reagire in modo profondamente dualistico. Le dimostrazioni servono per mostrare che qualcosa è possibile e ci può permettere di cambiare ciò che ci lega se andiamo in una direzione con sincerità. Il corpo deve ritrovare la sua base naturale, quello che è realmente in profondità, e non essere modellato per seguire i desideri di un’epoca, di una moda, di un’idea di sé prestampata su un cervello reso fragile dall’ambiente circostante. La dimostrazione di una tecnica dipende da molteplici fattori che condizionano una risposta ad hoc e non una risposta incondizionata prevista dalla nomenclatura delle tecniche. Deve permettere a chiunque di sentirsi coinvolto da quello che passa sotto i suoi occhi in modo da saper reagire a seconda del bisogno, indipendentemente dal contesto ma piuttosto integrando ciò che lo circonda per creare una situazione che porterà una soluzione tranquilla, e se possibile pacifica, contrariamente a qualsiasi atto che rischierebbe di diventare sgradevole e/o persino pericoloso.

Avec un débutant il faut se montrer particulièrement disponible.

Quale partner utilizzare

Ho visto spesso degli insegnanti scegliere regolarmente il loro migliore allievo come uke. Se questa scelta sembra ragionevole nelle dimostrazioni pubbliche, al momento delle “porte aperte” in quanto si tratta di mostrare la bellezza dell’arte o la sua efficacia, senza rischi per il partner che saprà cadere in ogni circostanza, ciò non ha più senso nel quotidiano dove l’obiettivo è tutt’altro a mio avviso. Lavorare con degli anziani spesso ci valorizza per via della loro disponibilità, della qualità dei loro spostamenti, del modo di seguire che hanno ma quanto a loro l’inconveniente è che cercano spesso di mettere in risalto il proprio professore. Con un principiante, soprattutto chi è veramente principiante, è molto differente, in questo caso, non ci sono errori possibili, bisogna mostrarsi particolarmente disponibili di fronte a un corpo che non è abituato a muoversi, a reagire in tale situazione e che rischia di farsi male per niente. È indispensabile comprendere, sentire l’altro, e malgrado tutto arrivare a far passare il messaggio che si desidera per permettere l’apprendimento e lo sviluppo di persone che vengono per imparare. Ho sempre trovato interessante fare le dimostrazioni delle tecniche con persone decisamente meno preparate, se non principianti, cosa che mi permette di mostrare e anche dimostrare che l’adattamento al corpo dell’altro è uno dei segreti del Non-fare.

Il segreto di ciò che è vivo

È necessario che le dimostrazioni durante una seduta siano adattate ogni volta alle tipologie di persone che sono presenti e che, grazie a ciò, possano percepire mediante impregnazione la circolazione del Ki, cosa molto più difficile se queste dimostrazioni sono mediatizzate. I libri contenenti disegni o foto non possono servire che come supporto tecnico o un complemento talvolta indispensabile, ma non possono sostituire le dimostrazioni dal vivo. I video possono anche essere utili per conoscere le differenti scuole o i “Maestri storici”, ma anche – e forse di più – per dare un’immagine della nostra arte e in tal modo suscitare il desiderio di scoprire la sua bellezza come la sua efficacia. Tuttavia, che si tratti di musica o di arti marziali, il segreto si trova al di là della forma o dell’allenamento, è piuttosto a mio avviso nella manifestazione di ciò che è vivo, che si può scoprire solo grazie a quello che si è sentito al suo contatto. Un musicista dilettante può animare un ballo folk e permettere a un paese intero di trovare un’unità nel piacere di essere insieme perché lui stesso è parte integrante dell’ambiente. In un dojo, ciò che è vivo, e quindi il Ki, si manifesta grazie a ciò che vi è nella persona che conduce la seduta. È la qualità interiore che si esprime nelle dimostrazioni, che siano rapide o lente, possenti o sottili e penetranti. È il Ki che esse sprigionano che ci porta a cominciare la pratica dell’Aikido, che ci spinge a continuare o talvolta a fuggire da quel posto. Nulla può sostituire ciò che è vivo, né i discorsi, né i sorrisi, né le finzioni. Le dimostrazioni durante le sedute sono per me il riferimento ultimo, “un momento di verità”.

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Articolo di Régis Soavi pubblicato in Self e Dragon Speciale n° 15 nel mese di ottobre del 2023.

Vivere Seitai

di Régis Soavi. 

«Il Seitai 整体 ha, prima di tutto, a che fare con l’individuo nella sua individualità, e non con un uomo medio secondo un calcolo statistico. La vita stessa è invisibile ma, manifestandosi negli individui, dà luogo ad un’infinità di formule diverse.1» ( (Tsuda Itsuo)

Seitai: filosofia o terapeutica?

Seitai Kyōkai di Tokio 整体協会. Seduta di Katsugen Undo nel 1980.
Seitai Kyōkai di Tokyo 整体協会. Seduta di Katsugen Undo nel 1980.

Il Seitai, e il suo corollario il Katsugen undo 活元運動 (2), sono riconosciuti in Giappone dagli anni sessanta dal Ministero dell’educazione (oggi Ministero dell’educazione, della cultura, degli sport, della scienza e della tecnologia) come un movimento d’educazione. Non sono riconosciuti come una terapeutica – che sarebbe riconosciuta dal ministero della sanità. L’ambiguità tra i due viene tuttavia mantenuta da un gran numero dei suoi divulgatori.
Dalla pubblicazione nel corso degli anni settanta dell’opera di Itsuo Tsuda, il Seitai fa sognare tra le fila delle numerose persone che si interessano alle tecniche New-age, Orientalisti o altri. Talora ci si improvvisa tecnici, talora si aggiungono degli “ingredienti seduttori” come scriveva lo stesso Tsuda sensei. È tempo di mettere un po’ d’ordine, di tentare di richiarire tutto questo, e per questo basta fare riferimento tanto all’insegnamento di Itsuo Tsuda che ai testi originali del creatore di quest’insegnamento, di questa scienza dell’umano, di questa filosofia.

Haruchika Noguchi sensei

Noguchi Haruchika sensei (1911-1976), fondatore del Seitai.

Questo Giapponese, fondatore dell’Istituto Seitai (3), è l’autore di una trentina di libri di cui tre sono stati tradotti in inglese. È anche lo scopritore di tecniche che permettono di far scattare il Movimento rigeneratore in quanto ginnastica del sistema involontario (4). Molto giovane, Haruchika Noguchi 野口晴哉 scopre di avere una capacità che pensa sia unica e “extra-ordinaria”: quella di “guarire le persone”. Questa capacità, la scopre in occasione del grande terremoto del 1923 che devasta la città di Tokyo, alleviando una vicina che soffre di dissenteria, semplicemente posandole la mano sulla schiena. Molto rapidamente la voce si diffonde, e le persone si precipitano all’indirizzo dei suoi genitori per ricevere delle cure. Egli si accontenta di posare le mani sulle persone che se ne vanno alleviate dai loro malanni. Comincia allora una carriera di guaritore, ha solo dodici anni, la sua reputazione assume una tale ampiezza che all’età di quindici anni apre il suo primo dojo nella stessa Tokyo. Ma Noguchi sensei si pone delle domande: qual è la forza che agisce quando posa le mani e perché lui solo detiene questo potere? Invece di approfittare di ciò che pensa essere un dono e sfruttarlo, ricerca, s’interroga, comincia a studiare come autodidatta. Per anni ricerca delle soluzioni ai problemi che gli pongono i suoi clienti attraverso le conoscenze che provengono dall’agopuntura dell’antica medicina tradizionale cinese, che studia con suo zio, dalla medicina giapponese (kampo 漢方), dai diversi tipi di shiatsu e kuatsu, e anche dall’anatomia occidentale, ecc. La sua fama è tale che viene conosciuto e riconosciuto anche internazionalmente. Incontrerà infatti in seguito numerosi terapeuti alcuni dei quali sono già, o diventeranno, famosi, come Masahiro Oki, il creatore dell’Oki-do Yoga, o Akinobu Kishi sensei, creatore dello shiatsu Sei-ki, o anche, più conosciuto in Francia, Moshé Feldenkrais, con cui avrà degli scambi in numerose occasioni. Ma ha già compreso che questa forza che sente in sé non gli appartiene in quanto individuo, e che esiste invece in tutti gli esseri umani ed è ciò che chiamerà più tardi la forza di coesione della vita.

Il Seitai: una visione globale

Régis Soavi
Régis Soavi

È negli anni cinquanta che il Maestro Noguchi cambia completamente orientazione. Attraverso la propria esperienza pratica e i propri studi personali, giunge alla conclusione che nessun metodo di guarigione può salvare l’essere umano. Abbandona la terapeutica, concepisce l’idea di Seitai e il Katsugen undo. Già in quel periodo dichiara: «La salute è una cosa naturale che non richiede alcun intervento artificiale. La terapeutica rafforza i rapporti di dipendenza. Le malattie non sono delle cose da guarire, ma delle occasioni di cui bisogna approfittare per attivare l’organismo e riequilibrarlo» (5), tutti temi che riprenderà più tardi nei suoi libri. Decide quindi di smettere di guarire le persone e di diffondere il Katsugen undo, così come yuki 愉氣 (6), che non è la prerogativa di una minoranza, ma un atto umano e istintivo.
La conclusione cui giungono le ricerche fatte da Haruchika Noguchi sensei ci porta a vedere il Seitai come una filosofia – e quindi non come una terapeutica – ed è lui stesso che lo definiva così nei suoi libri (7). Ciò non vuole dire che quello che faceva e insegnava non avesse conseguenze sulla salute, bensì il contrario perché il suo ambito di competenza era al servizio delle persone e consisteva nel permettere agli individui di vivere pienamente. Malgrado ciò un certo numero di persone, sia alla sua epoca sia oggi, sono state infastidite da un’opinione così radicale e ciò portò, per chi voleva vedere e comprendere solo secondo la propria opinione, una confusione tra cose di natura diversa. Ne conseguì che esse privilegiarono il sostegno alle persone a scapito del risveglio dell’essere.
L’abilità tecnica di questo grandissimo maestro era unanimemente riconosciuta in Giappone, era stato anche il presidente dell’associazione dei terapeuti manuali nel periodo prebellico. Ma il suo lavoro, che considerava un accompagnamento, una guida, un’orientazione Seitai, andava molto al di là del guarire le persone che si recavano da lui, si trattava piuttosto di permettere ad ognuno di ritrovare la propria forza interiore e per questo era di un’incredibile efficacia.
Spiega che molto spesso è il Kokoro 心 (8) che è affetto, che è perturbato e che basta condurre questo Kokoro nella buona direzione perché la persona ritrovi la salute che aveva perso. Fare scorrere il Ki nella buona direzione era la sua tecnica privilegiata, questo può sembrare piuttosto facile, ma le cose stanno in tutt’altro modo. Non ci si improvvisa guida Seitai, non si tratta di cercare tramite dei trucchi di stimolare questa o quella parte del corpo ma di comprendere, di sentire da dove viene il problema per permettere questo scorrere del Ki nella buona direzione e per far lavorare la vita. Noguchi sensei aveva un’intuizione straordinaria e la qualità delle sue sensazioni, la finezza della sua osservazione ne facevano veramente un uomo eccezionale e anche qualcuno che alcuni dei suoi contemporanei consideravano temibile da un certo punto di vista a causa della sua estrema perspicacia.

Itsuo Tsuda (1914-1984). Introdusse il Seitai in Europa negli anni ’70 dopo aver studiato per vent’anni con Noguchi sensei.

Un sogno

La salute è diventata un sogno tecnologico. Siamo passati dalla concezione del diciannovesimo secolo, così ben riassunta da Jules Romain nella sua opera teatrale Knock ou le Triomphe de la médecine, in cui si considera che ogni persona in salute è un malato che non sa di esserlo, alla concezione del ventesimo secolo che pretendeva di sradicare la malattia grazie alla chimica farmaceutica e ai raggi. Il ventunesimo secolo, invece, ci propone di risolvere tutti i problemi con la genetica o il transumanesimo.
L’analisi si vuole sempre più minuziosa, si è passati dalla dissezione al sequenziamento. Tagliando l’essere umano in pezzi sempre più piccoli, fino alle cellule e ora ai geni e anche di più, si perde di vista l’insieme, ci si allontana dalla nozione di individuo (dal latino individuum: ciò che è indivisibile) e curiosamente la conseguenza è che si è obbligati a trattare l’umano in generale e non più in particolare. L’essere umano appare come un accumulo di parti. Ogni parte del corpo ha il proprio specialista, psichica compresa ovviamente, e tutti si occupano del sintomo del loro cliente. Per delle ragioni ideologiche o religiose, o quando il risultato atteso non arriva con la medicina classica, ci si rivolge verso le medicine chiamate parallele. Può trattarsi sia di metodi ancestrali di gran valore sia di piccole truffe. C’è attorno a noi una quantità di ricette diffuse da internet, e ritrasmesse dai nostri amici e conoscenti, ognuno dei quali pensa di detenere la soluzione ai nostri problemi di salute, di energia, o semplicemente a un qualsivoglia disturbo.

Il sintomo

Ci si accanisce a guarire il sintomo, perché è ciò che ci disturba. Certo, non si può negarne l’importanza, è il segno, spesso il rivelatore, di un problema che non si era ancora percepito. Ma è anche e soprattutto la manifestazione del lavoro dell’organismo per risolvere la difficoltà. Spesso i problemi del corpo sono compresi male e li si vuole risolvere il più velocemente possibile senza cercarne realmente la causa profonda. Basta far scomparire il sintomo perché tutti siano contenti, perché si pensi di essere guariti, mentre molto spesso si è semplicemente scostato il problema e, a volte persino, impedito al corpo di reagire.

Il corpo ha delle ragioni che la ragione non conosce

Hirochika Noguchi, figlio maggiore del fondatore del Seitai, con Régis Soavi, durante la sua visita a Parigi nel novembre 1981

Non esiste un corpo perfetto e immutabile, il corpo si muove senza sosta all’esterno come all’interno, è la vita stessa che vuole questo. Ma bisogna pur prendere in considerazione che questo movimento o piuttosto questi movimenti sono anche il risultato delle nostre tendenze corporali, che queste derivano dalla nostra nascita, dai nostri geni, così come dall’uso che facciamo del nostro corpo tramite il lavoro, lo sport, le arti marziali, e quindi in generale tramite qualsivoglia attività. Per esempio, c’è un fenomeno piuttosto ricorrente nelle arti marziali e negli sport in generale: aver male a uno, o alle due ginocchia. La risposta più comune è trattare il dolore nel punto in cui si trova, anestetizzarlo, impedirgli di gonfiarsi, ecc. In realtà, in casi di questo tipo come in molti altri, si sta dimenticando oppure negando che questo fenomeno è una risposta naturale dell’organismo a un problema di ordine molto più vasto, un problema di postura o un cattivo utilizzo del corpo.
Haruchika Noguchi ci ha lasciato uno strumento estremamente prezioso che permette di comprendere meglio gli esseri umani in funzione della polarizzazione dell’energia (del Ki) nelle diverse regioni del corpo. Questo strumento, il concetto di Taiheki 体癖 (9), ci offre la possibilità di percepire l’individuo nel proprio movimento inconscio attraverso le abitudini corporali e quello che ne è il risultato. Noguchi sensei usava un sistema di comparazione basato sul mondo animale, concepito all’inizio delle sue ricerche come un’osservazione minuziosa del movimento umano, che ridusse per ragioni d’insegnamento a sei gruppi che comprendevano in tutto dodici tendenze principali. Ciascuno dei primi cinque gruppi è in relazione con un vertebra lombare e un sistema corporale (urinario, pelvico, polmonare, ecc.), l’ultimo invece descrive uno stato generale del corpo.
Queste tendenze che derivano dalla coagulazione e dalla stagnazione del ki hanno come causa gli irrigidimenti o le mollezze del corpo quando non riesce più a rigenerarsi, a rimettersi dalle fatiche che gli sono imposte.
Facciamo un esempio in modo da rendere la cosa concreta: molte persone hanno tendenza ad appoggiarsi più su un gamba che sull’altra. Questa tendenza può essere il risultato (tra le altre cose) del lateralismo o della torsione, come vengono chiamati nel Seitai, che sono come altre deformazioni corporali assolutamente involontarie; non sono altro che il risultato, la risposta dell’organismo che cerca di mantenere il corpo in equilibrio.
Nel caso della torsione, la gamba d’appoggio serve per prepararsi a scattare per attaccare o per difendersi, in tutti i casi per vincere; con il lateralismo si tratta piuttosto di uno stato che deriva da tendenze digestive e sentimentali con una deformazione a livello della seconda lombare, questo stato spinge alla concertazione, alla diplomazia. In questi due esempi, sarà sempre la stessa gamba che serve da punto d’appoggio ed è per questo motivo che supporta permanentemente la maggior parte del peso, quindi si affatica e tende a usurarsi maggiormente e a diventare rigida. L’insieme dell’organismo soffre di questa dissimmetria e, in particolare, ovviamente in primo luogo la colonna vertebrale. Per mezzo di un rigonfiamento dovuto a un apporto di liquido o grazie a un dolore, e spesso anche tramite entrambe le reazioni, l’organismo cerca di alleviare il ginocchio che porta il tributo più pesante, impedendoci di utilizzarlo fino alla guarigione, cioè fino a che non si ristabilisce l’equilibrio del corpo nel suo insieme. Se si impedisce questo sviluppo forzando lo sgonfiamento e sopprimendo il dolore, il corpo diventato insensibile continuerà ad appoggiarsi sullo stesso lato e la situazione peggiorerà. Il corpo cercherà di ritrovare l’equilibrio in tutti i modi, all’inizio rinnovando i problemi alle ginocchia appena ritrova la sensibilità in questo punto, poi poco a poco sono le anche che iniziano a compensare la mancanza di flessibilità e alla fine la schiena, cioè la colonna vertebrale, con tutte le conseguenze che si possono immaginare. Il mal di schiena non è considerato come il problema più comune nella nostra civilizzazione e anche forse come il “male del secolo”? La soluzione è sopportare il dolore in silenzio? Non è il punto di vista del Seitai, ma mantenere l’equilibrio dall’inizio, dalla nascita, consiste nell’accettare le piccole perturbazioni e nel guidare il corpo nella buona direzione nel quotidiano, giorno dopo giorno. Se non si sono rispettate le manifestazioni del proprio organismo diventa necessario passare attraverso un riapprendimento corporale, un riequilibrio lento ma profondo. Se invece non si accetta il lavoro del proprio corpo, bisognerà allora accettare la desensibilizzazione progressiva, l’irrigidimento progressivo e le sue conseguenze: una certa forma di Robotizzazione o l’indebolimento e l’incapacità di reagire.

Vivere Seitai

Noguchi sensei considerava che occuparsi dei bambini a partire dalla nascita era già tardi. I mesi della gravidanza, il parto, le prime cure da dare al bebé facevano parte integrante delle sue preoccupazioni riguardo la vita futura del bambino. Itsuo Tsuda sensei ci dà nei suoi libri numerose indicazioni sulla gravidanza, il parto, l’allattamento, la nutrizione, lo svezzamento, i primi passi, ecc. e in particolare nel quarto volume intitolato Uno. Il Seitai non stabilisce delle regole da seguire in ogni circostanza, non si tratta di trovare una buona soluzione ai problemi della prima infanzia, dell’infanzia, o dell’adolescenza come in un libro di puericultura o di pedagogia. Il Seitai si occupa delle manifestazioni della vita senza a priori, permette di guidare i genitori pur permettendo loro di sviluppare la propria intuizione grazie a un dialogo nel silenzio con il bebé e poi con il bambino piccolo. Per chi non ha avuto la fortuna, o a volte la possibilità di lasciare il corpo lavorare in funzione dei propri bisogni, restano ancora delle possibilità di ritrovare uno stato di salute? È a questo punto che interviene la pratica del Katsugen undo.
È una pratica di una grande semplicità che comincia con una condizione indispensabile: non pensare. Tsuda sensei chiamava ciò “svuotarsi la testa”. Ne La scienza del particolare, ci spiega cosa intende con quest’espressione: “Svuotare la testa! Se ne comprende la necessità oggi, che la testa è diventata una pattumiera nella quale la fermentazione continua ventiquattro ore su ventiquattro, per produrre l’inquietudine del presente, e la paura dell’avvenire.
Che cosa chiamiamo “svuotarsi la testa”? Non si tratta, beninteso, dello stato comatoso nel quale la coscienza è perduta. Si tratta di uno stato in cui la coscienza smette di essere perturbata dalla successione delle idee. Al posto della cerebralizzazione eccessiva, la vita comincia a risvegliarsi nelle parti del corpo fino ad allora lasciate in letargo.” (10)

La nozione di individuo nel Seitai

Per H. Noguchi sensei, l’essere umano diviso in parti non esiste, esiste sempre in quanto corpo unico.
Alla luce delle scoperte più recenti ci si rende conto, per esempio grazie alla teoria delle fasce, dell’interazione esistente tra le diverse parti del corpo, anche se sono a volte estremamente distanti tra loro. Alcune di queste teorie hanno permesso di riabilitare delle tecniche ancestrali provenienti da lontani paesi, finora incomprese nella loro profondità e molto spesso poco rispettate dalla scienza medica occidentale. Altre scoperte, riportate in particolare da M.-A. Sélosse nel suo libro Jamais seul (11), hanno messo l’accento sull’aspetto simbiotico dell’individuo, sull’interazione esistente tra i batteri e il corpo: l’essere umano non è più considerato in modo separato, la biologia moderna intravede in modo flagrante il suo carattere di simbionte. Una volta di più, una volta ancora dovrei dire, si è obbligati a considerare l’individuo nel suo insieme.
Ciononostante, malgrado un’epoca in cui le scoperte tecnologico-scientifiche hanno considerevolmente aumentato la conoscenza sull’essere umano, dal punto di vista del Seitai poche cose sono cambiate, resta lo stesso di sessanta o settant’anni fa; le cause che lo perturbano, che perturbano il suo Kokoro sono diverse, ma l’essere umano in sé resta lo stesso. Si può anche constatare purtroppo che numerosi corpi e menti sono più fragili al giorno d’oggi in cui le ideologie sulla salute hanno creato degli individui profondamente dipendenti da specialisti di ogni sorta, generando un certo tipo di alienazione a volte difficile da comprendere o da analizzare per chi non ha una visione d’insieme della società. L’abisso verso il cui fondo ci dirigiamo richiede che ognuno riprenda in mano se stesso in modo individuale ed è forse su questo che l’orientazione Seitai ci può chiarire: fornendo all’individuo uno strumento unico per ritrovare la propria autonomia, riappropriarsi della propria vita e viverla pienamente. È per questo che la pratica di Katsugen undo e lo Yuki sono le due attività proposte dalla Scuola Itsuo Tsuda, perché sono l’Alfa e l’Omega della pratica del Seitai.

 

Notes:

  • 1 Itsuo Tsuda, Il Non-Fare, Yume editions, 2014, p. 77.
  • 2 Traduzione italiana: Movimento rigeneratore (di Itsuo Tsuda).
  • 3 Seitai Kyōkai 整体協会.
  • 4 Si tratta più precisamente di un esercizio del sistema motorio extra-piramidale.
  • 5 Haruchika Noguchi, Colds and their benefits, Zensei Publishing Company, trad. ingl.
  • 6 Yuki: atto di concentrazione dell’attenzione che attiva la forza vitale dell’individuo.
  • 7 Haruchika Noguchi, Order, Spontaneity and the body, Zensei Publishing Company,
  • 8 Kokoro, cuore e spirito, facoltà di ragionamento, di comprensione, e volontà dell’uomo non come opposto alla sua dimensione corporea, ma come ciò che la anima.
  • 9 Abitudini corporali.
  • 10 Itsuo Tsuda, La scienza del particolare, Yume Editions, 2019, p. 167.
  • 11 Marc-André Sélosse, Jamais seul, Actes sud, giugno 2017.

 

Essere umili, certo, ma fieri di sé

di Régis Soavi

Sembra che oggi il senso della parola fierezza si sia appesantito in modo fuorviante, la fierezza è diventata quasi uno dei maggiori difetti in certe classi della società. Si usa erroneamente la parola fiero per definire « uno che si crede superiore agli altri e lo manifesta con il suo comportamento », mentre in questo caso spesso si tratta, a mio avviso, semplicemente di un inconscio presuntuoso.

La stima di sé

Troppo spesso confondiamo l’autostima, che è eminentemente rispettabile, con la vanità, che è una forma di autocompiacimento che può solo farci del male. Diremo invece di una persona “che si suppone consapevole dei suoi limiti, delle sue debolezze, e che lo manifesta con un atteggiamento volutamente modesto e schivo” che è umile, anche se questa umiltà è fittizia e serve solo a ingannare il suo entourage. Il mondo politico è sempre stato pieno di questo tipo di usurpazione appropriandosi dell’uso dei termini essere umili o essere fieri. L’umiltà implica un rapporto sociale, è necessaria di fronte agli altri per mantenere un equilibrio esterno tanto quanto quello interno, ma non deve nuocere al nostro stato di coscienza e alla forza che ci guida nella nostra vita.

L’amor proprio

Inizia alla nascita nella sua forma naturale chiamata egocentrismo e di cui non bisogna aver paura nonostante le raccomandazioni di certe scuole di pediatria o di pedagogia, perché è indispensabile per la sopravvivenza del bambino piccolo. Molto velocemente il bambino prende coscienza di essere ed è orgoglioso di essere ciò che è, di ciò che può fare o dire. Partecipa al mondo non come creatura dipendente ma già come creatore di ciò che lo circonda, per lui il mondo “gli appartiene e vuole goderne”. La forza della vita che fatica a contenersi in questo piccolo corpo lo spinge ad esercitare le sue capacità in tutte le opportunità che troverà alla sua portata, e anche oltre. Se non è spezzato dall’educazione, manterrà un senso di quello che viene chiamato amor proprio, che a mio modesto parere è la fierezza. L’amor proprio ci spinge ad andare al di là delle nostre capacità, a cercare più lontano più in profondità, a scoprire, per essere fieri di sé, ciò che ci riempie di soddisfazione e allo stesso tempo stimola il desiderio di superare se stessi proprio di tutti gli esseri viventi.
Essere fieri dei propri talenti è l’opposto della presunzione ed essere consapevoli di ciò che si è capaci di fare non è vanità. Troppe volte ho visto e ricevuto persone al dojo che non erano più consapevoli delle loro reali capacità e allora ne hanno inventate di fittizie per sopravvivere in un mondo dove solo i più forti sembrano avere il sopravvento. Rovinate, aspettano ordini o almeno esempi da poter imitare per diventare ciò che non saranno mai nella realtà, ma per reclamarlo davanti a chi è più debole di loro.

Un umile dojo

È in uno di quei vecchi quartieri di Parigi che ha mantenuto un’atmosfera calma e al contempo popolare che, da parigino all’antica, ho la fortuna di insegnare ogni mattina.
Situato come in una nicchia al primo piano di un edificio che un tempo era industriale, il dojo Tenshin si trova nel ventesimo arrondissement di Parigi. Ci si accede dopo aver attraversato una porta che da un lato si apre su un piccolo vicolo cieco, e dall’altra parte su un giardinetto che bisogna attraversare prima di salire le scale. Nessuna insegna luminosa appariscente, niente grandi foto che vantano le virtù del luogo e propongono fitness e/o cultura fisica e marziale. Adiacente alla vecchia petite ceinture (ferrovia in disuso che circondava Parigi), vicinissimo a uno di quei ponti ferroviari che non esistono quasi più, ha il fascino dei luoghi nascosti che ci piace scoprire durante una passeggiata in città in un giorno di sciopero o di vacanza quando la città è svuotata. Quando si entra nel dojo tutto cambia; anche se le finestre dell’angolo caffè si affacciano sul giardino, anche se appena le si apre risuonano i canti degli uccelli, lo spazio dei tatami si presenta come un bozzolo di oltre 200 mq, illuminato sia dal cielo sia da ventagli luminosi posti a soffitto. Frutto del lavoro dei praticanti che ne hanno assicurato la ristrutturazione oltre che la manutenzione quotidiana, il dojo per noi ha un fiero aspetto. In questo luogo di lavoro del corpo e sul corpo, nella dolcezza e nella concentrazione come nella resistenza e nella tenacia, ogni persona che partecipa alle sedute di Aikido o Katsugen Undo1 si sente fiera di esserci, senza alcuna presunzione, ma con il piacere di vivere ciò che il mondo del quotidiano ha reso difficile o addirittura impossibile per alcuni. Tutto è da riconquistare e se il desiderio c’è, il luogo vi si presta. Se il dojo si presenta così umilmente (è il suo lato Ura) è anche per permettere l’incontro con persone semplici e coraggiose che sapranno scoprirne l’interesse (il suo lato Omote) al di là delle apparenze.

O sensei Ueshiba, che postura magnifica!

Umiltà e postura

Preservare l’umiltà per permettere di ritrovare la fierezza di essere ciò che si è realmente non manca di interesse e spesso si presenta come una necessità di fronte a ego smisurati e di costruzione recente, spesso dovuti all’educazione dei figli di una parte privilegiata della società. Di solito le persone umili sono rappresentate curve, piegate in due, a testa bassa, questo in realtà è solo un segno di sottomissione o di rinuncia. La respirazione in questo caso è bloccata o sibilante e tutto il corpo tenderà ad andare verso l’inganno se non vi è già. Umiltà e umiliazione sono due cose diverse, non si diventa umili attraverso l’umiliazione, la reazione più sana sarà la ribellione, poi ci drizzeremo per mostrare le nostre capacità, anche nelle avversità. Quando il corpo è dritto, lo scheletro è in equilibrio e non più schiacciato dal peso delle carni, ciò che lo circonda lo mantiene in questa postura, animato da questa energia vitale che è difficile definire ma che conosciamo e riconosciamo. Ricordo ancora oggi la postura di Tsuda sensei che esce dal dojo dopo la seduta mattutina con la sua borsa per fare un po’ di spesa prima di tornare a casa. A chi non lo conosceva sembrava un uomo ordinario, un asiatico che sceglieva la frutta in rue Saint Denis o comprava un giornale, per chi sapeva « vedere » emanava da lui una presenza, un modo di muoversi, diverso da tutti quelli che lo circondavano. Con la schiena dritta e la testa allineata, si poteva dire che avesse un portamento fiero; anche senza sapere nulla della postura si poteva sentire la sua forza interiore, la sua « aura ».

Tsuda Itsuo sensei. Il corpo si raddrizza e si distingue in mezzo alla folla.

Uno

Tutti i maestri che sono stati allievi di Morihei Ueshiba, sotto la cui direzione ho avuto la possibilità di imparare e di allenarmi, come Noro sensei, Nocquet sensei, Tamura sensei, avevano un’idea molto alta di ciò che era stato loro trasmesso e si sentivano investiti di una missione che non potevano tradire. Proprio come altri come Sugano sensei, Hikitsuchi sensei, Kobayashi sensei o Shirata sensei che ho incontrato durante gli stage, tutti avevano una grande semplicità, un grande rigore ed erano fieri di trasmettere la nostra arte con l’umiltà che si addiceva a ciascuno di loro, sapendo chiaramente essere « fieri e umili » allo stesso tempo.
Ovviamente Tsuda sensei, che è stato il mio maestro per dieci anni, faceva parte di questa tradizione e sapeva benissimo come metterci al nostro posto quando occorreva, spesso usando l’umorismo o la derisione perché aveva l’arte di guidarci senza sminuirci, ma piuttosto valorizzando le nostre qualità senza mai lasciarcene inorgoglire.
Ecco un testo di Haruchika Noguchi2 tradotto da Tsuda sensei, che a prima vista e per chi non conosce l’autore può sembrare estremamente presuntuoso, ma può anche darci una piccola idea della visione di un maestro riconosciuto come il più prestigioso nella sua arte.

«Riflessione sulla vita integrale
Io sono.
Io sono il Centro dell’Universo.
In me risiede la Vita.
La Vita non ha né inizio né fine.
Attraverso me, si estende all’infinito, attraverso me, si collega all’eternità.
Come la Vita è assoluta e infinita, anch’io sono assoluto e infinito.
Se io mi muovo, l’Universo si muove. Se l’Universo si muove, io mi muovo. « Io » e l’Universo siamo Uno indivisibile, un corpo e un pensiero.
Io sono libero e senza barriere. Sono distaccato dalla vita e dalla morte. È così, ben inteso, anche per la vecchiaia e la malattia. Io, ora, realizzo la Vita e dimoro nella quiete infinita ed eterna.
La mia condotta nella vita quotidiana rimane imperturbabile e inalterabile. Questa convinzione è incorruttibile ed eternamente inattaccabile.
Uhm! Va tutto bene.» (Traduzione di Itsuo Tsuda, Uno, Yume Editions)

Tsuda Sensei aggiunge nel suo libro alcune osservazioni: « Questo pensiero forse non ha bisogno di commenti, per quelli che ne sentono direttamente l’impatto. Eppure mi rendo conto dell’enorme distanza che separa questo pensiero dal pensiero occidentale che sottende la struttura mentale dei civilizzati […]
Io, sono. Questa affermazione è semplice, profonda e sublime.
A differenza di Cartesio, Noguchi non ha bisogno di provare la sua affermazione. Non si trova in una posizione di “distanza”, ma è « dentro » rispetto alla propria affermazione. Questa ci può imbarazzare per la sua stessa semplicità […] Ma nessuno osa dire: “Io sono”, punto.
Io sono il Centro dell’Universo. Dal punto di vista occidentale, non può essere che la parola di un pazzo. Noguchi è un megalomane, un fanatico che si crede Dio? […] Tuttavia, ciò che dice deriva da una banalissima constatazione: io sono l’unico a sentire il valore diretto della mia esperienza. Da questo punto di vista, chiunque può riconoscere di essere egli stesso il Centro dell’Universo. A ciascuno il suo universo.
Universo mentale? Universo soggettivo? Quanti Universi ci sono nell’Universo?» (Itsuo Tsuda, Uno, Yume Editions, 2020)

Calligrafia di Itsuo Tsuda. La vita. “Io sono. Io sono il Centro dell’Universo. In me risiede la Vita.”

Avere un bel portamento

Guardiamo la postura di O sensei quando cammina o quando innaffia i fiori: che postura magnifica! Allo stesso modo, rimango senza parole quando guardo come si muove Shimada Teruko sensei, esperta di Jikkishin-kage-ryu.

Shimada Teruko senseï.

Uomini o donne senza distinzione mostrano una certa nobiltà nella presenza davanti agli altri, così come semplicità e modestia nella loro intimità. Fino a non molto tempo fa si valorizzava la prestanza, che se non veniva evidenziata per nascondere difetti, debolezze o anche mediocrità o addirittura falsità, doveva riflettere l’interiorità, l’”anima” della persona. Molti valori sono ormai intesi come negativi o assurdi, si parla di arroganza, orgoglio, stupidità, infantilismo, ecc., dove il mio modo di intendere il mondo vedeva audacia, cortesia, intelligenza o brio, come ad esempio nel monologo del « no grazie » tratto dalla commedia di Edmond Rostand « Cyrano de Bergerac ».
Le arti marziali e più in particolare l’Aikido ci riportano a noi stessi, indipendentemente dall’educazione che abbiamo ricevuto, è la possibilità di ricentrarsi e allo stesso tempo di misurare la nostra indipendenza come pure la nostra dipendenza da tutto ciò che ci circonda. È l’occasione, grazie al contatto con gli altri, di ritrovare le nostre radici vive, seppur invisibili, ma non immateriali, o anzi di una materialità non ancora riconosciuta come misurabile. Con la pratica regolare, il corpo si raddrizza e, senza essere eccezionale, si distinguerà in mezzo alla folla come un elemento carico e degno di interesse.

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Articolo di Régis Soavi pubblicato in Self e Dragon Speciale n° 14 nel mese di luglio del 2023.

Note:

1) Katsugen Undo (in italiano Movimento Rigeneratore): pratica che permette la normalizzazione del corpo grazie all’attivazione del sistema motorio extrapiramidale (sistema involontario).
2) Haruchika Noguchi (1911-1976), fondatore del Seitai, di cui I. Tsuda seguì l’insegnamento per più di vent’anni.

Disequilibrare è destabilizzare

di Régis Soavi

Quando si cerca di disequilibrare una persona, istintivamente si sa dove si deve toccarla, sia fisicamente che psicologicamente. Nella maggior parte dei casi è il suo centro che deve essere raggiunto in modo tale da renderlo fragile e quindi vulnerabile.

La visione del Seitai

È difficile giungere al centro della sfera del partner se la periferia è potente poiché tutte le azioni sembrano rimbalzare sulla superficie o scivolare come su uno strato liscio, elastico e capace di deformarsi senza diminuire di densità, dunque senza essere penetrata né essere raggiunta in nessun modo. Tutto dipende da come ciascuno dei partner saprà e riuscirà a utilizzare la propria energia centrale, il proprio ki, sia nel ruolo di Tori che in quello di Uke. Va da sé che altri fattori non meno importanti, come la determinazione, il bisogno di vincere, fanno parte integrante di questa sfera e possono cambiare la situazione, poiché il ki non è un’energia come l’occidente oggi è abituato a considerarla, cioè un certo tipo d’elettricità o di magnetismo. Il Ki è la risultante di componenti multifattoriali e, avendo preso una certa forma, diventa concreto, anche se è difficile da analizzare e quasi non misurabile se non attraverso i suoi effetti. In tutti i casi, uno degli elementi essenziali dell’azione sarà la postura, non soltanto presa in considerazione per la sua caratteristica fisica, ma anche per il suo equilibrio energetico, le sue tensioni, le sue coagulazioni, i luoghi dove si trovano bloccate, imprigionate, così come le sue relazioni, tanto positive che negative, con il resto del corpo e le conseguenze che queste determinano. Una scienza del comportamento umano basata sull’osservazione fisica, la sensibilità ai flussi che percorrono il corpo e la conoscenza anatomica, è di primaria importanza quando se ne ha bisogno per esercitare molte professioni. Ciò non toglie che anche per un dilettante, un appassionato, essa può anche aiutarci a comprendere il nostro entourage o permetterci di uscire dall’imbarazzo quando ciò è necessario. Uno degli obiettivi di questa scienza, il Seitai, è quello di comprendere meglio l’essere umano nel suo movimento in generale e nel suo movimento inconscio in particolare. È uno strumento di qualità che ha già dato prova del suo valore in Giappone come in Europa, e che difficilmente può essere trascurato quando si pratica un’arte marziale. Benché sia stato insegnato in Francia per una decina di anni da Tsuda sensei attraverso la pratica del Katsugen Undo, le sue conferenze, e la pubblicazione dei suoi libri, la scarsa conoscenza in occidente del lavoro del suo iniziatore Noguchi sensei ha penalizzato la sua diffusione. Chiede di essere oggi più conosciuto, più riconosciuto per permettere a chi vi si interessa di trovare gli elementi che lo porteranno ad una migliore comprensione, almeno teorica. È quindi importante che il Seitai si faccia conoscere per essere meglio compreso e ammesso, per questo di tanto in tanto do modestamente per le persone interessate alcune indicazioni soprattutto sui Taiheki che, se si può dire sicuramente in modo un po’ caricaturale, presentano come una sorta di cartografia del territorio umano, sia a livello della circolazione del ki, sia dei suoi passaggi, dei suoi ponti, dei suoi punti di uscita, di entrata, ecc. È possibile comprendere meglio i Taiheki e il Seitai praticando il Katsugen Undo, che è alla base del ritorno all’equilibrio fisico e alla sensibilità necessari per avvicinarsi in modo pratico a questa conoscenza. Si può anche, almeno intellettualmente, andare direttamente alla fonte delle informazioni, leggendo o rileggendo i libri che Tsuda sensei ha scritto in francese. Il principio di base è riassunto in questa « definizione » che egli stesso ha dato: «Lo scopo del Seitai è quello di regolarizzare il circuito dell’energia vitale, che è polarizzata in ogni individuo, e di normalizzare così la sua sensibilità. La filosofia che sottende il Seitai è il principio che l’uomo è un Tutto indivisibile, e ciò lo distingue ovviamente dalla scienza umana occidentale che è basata su un principio analitico.» (Itsuo Tsuda, Il Non fare, Yume. p.76).

destabiliser
Lasciar sorgere l’azione giusta.

Un corpo atletico

Alcune persone hanno un corpo dalle proporzioni armoniose, spalle larghe e squadrate, gambe lunghe, sembrano estremamente stabili, per molti rappresentano l’esempio dell’essere umano ideale, donna o uomo. Ma se si osserva il loro comportamento appena si muovono, hanno tendenza a piegarsi in avanti (è una delle caratteristiche del tipo 5 che fa parte del gruppo « avanti-indietro » chiamato anche antero-posteriore). Di conseguenza, quando devono inclinarsi, spingono il sedere all’indietro e talvolta appoggiano le mani sulle ginocchia per compensare. Si possono riconoscere facilmente perché spesso, anche se immobili, incrociano le mani dietro la schiena per rimanere in equilibrio, non è un’abitudine, è un bisogno di riequilibrio. Questo è un chiaro segno di un bacino che manca di equilibrio e solidità, nonostante tutti gli sforzi, il centro, l’Hara rimane vulnerabile. In occasione di un incontro o di un allenamento è sufficiente quindi, se si è preso il tempo sufficiente per osservarlo, approfittare del momento in cui il partner si muove e quindi si inclina in avanti, per entrare sotto il terzo punto del ventre, circa due dita sotto l’ombelico, e aspirarlo o lasciarlo scivolare sopra di noi, e questo, indipendentemente dalla tecnica che si è scelto di applicare. Sembra semplice quando lo si legge, ma sebbene si tratti solo di uno degli aspetti, la scoperta e la comprensione della postura sono senza dubbio tra gli elementi che hanno la maggiore importanza. All’inizio, nella fase di apprendimento delle arti marziali, per quanto riguarda la realizzazione più concreta delle tecniche, è necessaria una conoscenza, ma nonostante tutto è grazie ad un allenamento basato sulla sensazione e sulla respirazione, che si acquisisce la capacità di cogliere il momento giusto e di essere “dentro”. Del resto il lavoro di osservazione dei partner, se si possiede la conoscenza delle posture, non può che farci del bene, può essere quel qualcosa in più di decisivo nel caso di una competizione o se si debba determinare se si tratta di un pericolo reale o di un’intimidazione.

Sentire le linee di equilibrio.

I Sumotori

I Sumotori con la loro corpulenza, la loro postura molto bassa, il loro modo di muoversi, sembrano esempi ideali di stabilità e di equilibrio, almeno fisico. Anche se il loro addestramento accentua alcune tendenze già presenti e rafforza le loro capacità nella direzione della solidità, rischia di deformarne altre a beneficio del loro successo futuro in combattimento. Dal punto di vista dei Taiheki, nonostante tutto, non sfuggono alla propria tendenza di base. Ci sono Sumotori di tutti i tipi, ovviamente, ma alcune tendenze di Taiheki sono più rappresentate di altre. Nel caso dei Sumotori appartenenti ai gruppi dei verticali, ce ne sono pochi di tipo 1 perché questo tipo di deformazione provoca molto rapidamente la loro eliminazione. Ciò si spiega con il fatto che fin dalla più tenera età si rivelano piuttosto incompetenti, anche quando sono fisicamente forti, sono molto facilmente destabilizzati. Il motivo principale risiede nel modo in cui affrontano l’azione. Seguono sempre l’idea del combattimento pre-concepito o percepito man mano che si svolge, e quindi sono sempre in ritardo e sorpresi dalla mossa del loro avversario. Invece i tipi 2, se hanno osservato bene gli ultimi combattimenti dei loro avversari, se sono ben guidati, possono definire una strategia che, se non è disturbata da cose imponderabili, può portarli alla vittoria. Hanno un’ottima conoscenza della fisiologia e dell’anatomia del corpo sia immobile che in movimento, cosa che permette loro quando vogliono sbilanciare l’avversario, di farlo con la massima probabilità di successo, poiché il terreno è stato ben preparato almeno teoricamente. Si basano anche sulla logica e la riflessione derivate dai combattimenti precedenti poiché è questo che li guida, e raramente la sensazione o l’intuizione. Diventati Yokozuna, si ritirano e si dedicano alla scrittura di libri, di articoli sulla loro vita, sul loro allenamento o ancora utilizzano la loro reputazione per sostenere delle buone cause, ecc.

Sumo Foto di Yan Allegret, Dohyô, 2006. Série photographique autour du monde du sumo

Torcersi per vincere

Per alcuni, disequilibrare vuol dire vincere, precipitarsi e poi prendere il sopravvento con un attacco frontale, diretto. Questa sembra essere la soluzione migliore se non l’unica possibilità che viene loro in mente, e non possono in alcun modo resistervi. Queste persone sempre pronte a combattere, a reagire, hanno in generale reazioni molto fisiche. Quando reagiscono con attacchi o risposte di ordine psicologico, ad esempio piccole frasi insidiose, si può facilmente vedere che si torcono, il loro bacino non è più nella stessa direzione della linea centrale del loro viso. Si può anche notare che, allo scopo di prepararsi all’azione immediata, il loro corpo mostra una torsione che accentua i loro punti di appoggio. Questa torsione, quando è permanente, è un ostacolo ad un movimento libero per chi ce l’ha e deve sopportarla. La soluzione sarebbe, se non si riesce a normalizzarla, riuscire ad utilizzarla in un lavoro per esempio o grazie ad un’attività che richiede un buon senso della competizione. Le persone che hanno questo tipo di deformazione ne subiscono le conseguenze loro malgrado. Si può notare in loro una tensione che è quasi permanente e quindi una grande difficoltà a rilassarsi, a prendersi il proprio tempo, questo porta a relazioni difficili con gli altri perché si sentono eternamente in competizione.
Quando si conosce il Seitai e più precisamente i Taiheki, si capisce meglio questo tipo di tendenze comportamentali. Questo permette di sapere quando e come agire senza cadere nella trappola della rivalità che queste persone cercano di mettere in atto intorno a loro per prepararsi a difendersi e di conseguenza per attaccare. Gli individui di questo tipo fanno parte del gruppo « Torsione » e tutto si basa sul fatto che inconsciamente hanno una sensazione di grande debolezza che non riconosceranno mai. Fondamentalmente si sentono in pericolo in modo permanente, motivo per cui considerano che la miglior difesa è l’attacco immediato perché sorprende l’avversario e dovrebbe non dargli l’opportunità di replicare.

Morihei Ueshiba O Sensei. Destabilizzare con lo sguardo.

Un archetipo dell’essere umano

A volte, una piccola frase, o una parola al momento giusto, possono cambiare una situazione, sia nel bene che nel male. Se si è capaci di respirare profondamente e di concentrare il ki nel basso ventre, si può, agendo al momento opportuno, far crollare un intero edificio e trasformare quella che sembrava essere una fortezza inespugnabile in una decorazione di carta-pesta per luna park. La respirazione addominale fa parte dei segreti che sono accessibili a tutti i praticanti a condizione che rivolgano la propria attenzione in questa direzione e che vi si esercitino. Le persone la cui energia si concentra naturalmente nella parte inferiore del corpo, a rischio di coagulazione se non c’è normalizzazione, sono classificate, dal punto di vista Seitai, sia nel gruppo detto di « torsione » (tipo 7 principalmente), sia nel gruppo bacino. Vorrei soffermarmi su coloro che all’interno di questo gruppo hanno una tendenza alla chiusura del bacino, cioè a livello delle ossa iliache (tipo 9), perché per Tsuda sensei rappresentano una tendenza che si trova all’origine dell’umanità. In questi tempi storicamente molto lontani, l’aspetto della sopravvivenza dal punto di vista fisico era primordiale, ma la sensibilità come anche l’intuizione erano qualità indispensabili. Sono proprio queste qualità che permettono al tipo 9 di essere un passo avanti agli altri in caso di pericolo, perché sente intuitivamente se deve rispondere a un gesto di minaccia o se si tratta di una semplice provocazione, inoltre sa se questa provocazione sarà seguita da un atto o se finirà in un nonnulla. “L’intuizione non può essere sostituita dalla conoscenza né dall’intelligenza. L’intuizione non si generalizza. In molti casi, sono la conoscenza e l’intelligenza che falsano l’intuizione.” (ibid. p.98) La presenza di una persona di questo tipo in un gruppo umano non lascia mai indifferenti, anche se si è incapaci di conoscerne la ragione né di percepirla con facilità. Queste persone hanno un comportamento che a volte sorprende la maggior parte della gente, sia a causa della loro rigidità, perché possono chiudersi molto facilmente, sia a causa del potere della loro concentrazione molto insolita nel nostro mondo dove la dispersione e la superficialità sono la norma. “Quando si concentra, non concentra solo una parte delle sue funzioni fisico-mentali. Concentra tutto il suo essere.” (ibid. p.98). La loro concentrazione è percepibile attraverso l’intensità del loro sguardo, il che è già estremamente destabilizzante, basta per esserne persuasi rivedere i pochi film che conosciamo su O Sensei, lui stesso del tipo 9.
La postura dei Sumotori al momento del combattimento è una postura che si adatta particolarmente bene a una persona di tipo 9 dato che “lo scarto tra l’apertura e la chiusura del bacino è molto grande in lui. Può accovacciarsi completamente, senza sollevare i talloni e rimanere a lungo in questa posizione, poiché è la sua posizione di distensione. Quando si alza, il suo peso si sposta dal lato esterno dei piedi alla base degli alluci. Questa è la sua posizione di tensione.” (ibid.95)

Sensibilità e intuizione

L’Aikido ci guida verso la stabilità e l’equilibrio, il Seitai si presenta anch’esso come una via che va nella stessa direzione, anche se lo fa grazie ad altri esercizi; la coniugazione delle due tecniche, Aikido come arte marziale e il Seitai attraverso il Katsugen Undo come proponeva Tsuda sensei, ha permesso alla nostra Scuola di continuare nella direzione del ritorno verso una sensibilità semplice ma indispensabile, in un mondo che mira piuttosto all’insensibilità e alla rigidificazione che si pretendono protettrici. L’intuizione ritrovata, la ricettività di nuovo attiva ci sono indispensabili per essere attori della nostra vita.

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Articolo di Régis Soavi pubblicato in Self e Dragon Speciale n° 11 nel mese di ottobre del 2022.

 

Trasmettere

di Régis Soavi

Insegnare, in un dojo, è trasmettere. È anche al contempo riunire e servire. Non si tratta di rafforzare il proprio Ego, né di essere un animatore al servizio dei voleri delle persone che frequentano le sedute, ma di permettere lo schiudersi di ciò che è allo stato di bocciolo e che attende in ciascuno di noi.

Una vocazione?

Non credo veramente alla vocazione perché il termine vocazione si riferisce troppo facilmente a ciò che è religioso, campo semantico da cui è necessario allontanarla il più possibile, perché la nostra società ha da tempo intorpidito le acque. Se parliamo di vocazione, deve essere primaria, materialista e pragmatica, sarà quindi piuttosto un’attitudine, un talento. Atteggiamenti del tipo « salvare persone che non hanno capito nulla, portarle alla luce » ecc., non sono assolutamente adatti all’insegnamento di un’arte come l’Aikido, senza per questo doverne fare un’arte comune o addirittura prosaica, una specie di « difesa personale ». Il fatto di insegnare deve scaturire naturalmente dalla ricerca che si è stati in grado di fare nel corso della propria pratica, ed è in questo senso che si tratta di una trasmissione. Spesso inizia con il desiderio di far conoscere ciò che si è scoperto, ciò che si è compreso, o creduto di comprendere e anche se non è una vocazione, ci sono persone che hanno talento per spiegare, per far vedere. Persone a cui piace prendersi cura degli altri, di permettere loro di progredire in un’arte o in un mestiere, che « sanno » farlo perché capiscono gli altri, perché hanno una sensibilità che è orientata in questa direzione, e un’affinità con questo percorso.

Trasmettere la postura.

La pedagogia

La pedagogia nell’istruzione scolastica il più delle volte consiste nel far ingoiare la pillola, perché sia l’allievo che l’insegnante sono tenuti ad ottenere un risultato.
Nell’Aikido direi che non ci sono metodi pedagogici buoni o cattivi, ci sono insegnanti buoni, meno buoni, anche cattivi, e per di più, tra questi, colui che è perfetto per uno può essere deplorevole per un altro e viceversa, anche, e forse soprattutto, quando si tratta di trasmissione. Le persone che iniziano a praticare, spesso arrivano con delle idee o delle immagini sulle arti marziali. O perché hanno visto dei video o dei film d’azione e sono rimasti entusiasti dello spettacolo, o a causa della loro vita personale in cui hanno incontrato difficoltà, subìto costrizioni, molestie, e vogliono uscire da questo stato di paura che queste situazioni hanno generato. Alcuni scoprono l’Aikido attraverso testi filosofici, a volte antichi come quelli sul Taoismo o sul Bushido. Nessuno comincia per caso, c’è quasi sempre un motivo, consapevole o meno, sempre un filo conduttore. Bisogna quindi adattare le risposte, dare forma alle parole senza tradire il loro significato profondo, far vedere, dimostrare grazie ad una tecnicità affinata come far circolare la nostra energia, cosa che permette la scoperta dello strumento “Respirazione” come la intendeva Tsuda sensei, cioè l’uso del ki attraverso la tecnica, i movimenti, gli spostamenti, l’istinto, ecc.

Il mio percorso

L’Aikido che il mio maestro Itsuo Tsuda mi ha insegnato è un po’ come una danza marziale, con la differenza che non ha, come la Capoeira, una forma che nasce dalla necessità di nascondere le sue origini o la sua efficacia. Della danza ha la bellezza, la finezza, la flessibilità di reazione. Della musica, ha la capacità di improvvisare su una base e la solidità dei temi suonati. Della marzialità ha la forza, l’intuizione, la ricerca delle linee fisiche tracciate dal corpo umano. La ricchezza dell’insegnamento che ho ricevuto è incommensurabile. Guidato da Tsuda sensei, attraverso le sue parole come i suoi gesti, ho potuto crescere, assetato com’ero di vivere pienamente, di andare oltre le ideologie proposte dal mondo « spettacolare e commerciale » in cui viviamo. Essendo un bambino del dopoguerra, mi sono scoperto pieno di speranza durante gli eventi di quel periodo storico che furono gli anni ‘68 e ‘69. È stato come un risveglio alla vita.
Questa rinascita aveva fatto maturare il frutto della mia comprensione del mondo. In così poco tempo ero cresciuto talmente che mancava solo lo sbocciare di ciò che ero veramente. L’incontro con il mio maestro non deve nulla al caso. Attirato dal ki che emanava, non potevo che incontrarlo. « Quando l’allievo è pronto, il maestro arriva », dicono in Giappone; non ero pronto per quello che mi sarebbe successo, ma ero pronto a riceverlo. Turbato, sconvolto da ciò che vedevo, da ciò che sentivo, da ciò che emanava da lui, abbordavo tuttavia nuovi territori, dove si estendeva una giungla che mi sembrava inestricabile, tanto era grande la mia fragilità rispetto a questo nuovo mondo. Dieci anni con lui non sono bastati, il lavoro di “districare” continua, anche se oggi, a distanza di quasi quarant’anni, ho potuto tracciare dei sentieri grazie alle sue indicazioni, questi “segnali indicatori” come diceva spesso, che ci ha lasciato.

La posizione di Uke permette di esporre vari aspetti della tecnica e il modo di mantenere il centro.

La continuità

Ogni mattina inizia un nuovo giorno. Insegnare per un’ora, un’ora e mezza due volte a settimana non corrisponde alla mia regola di vita, né d’altronde al mio credo. Ho bisogno di più, molto di più, per questo il dojo è aperto tutti i giorni, non per motivi pecuniari (anche se l’associazione che lo gestisce ne avrebbe bisogno) ma per permettere la continuità di tutti quelli che possono venire regolarmente. Come tutti, ho iniziato tenendo corsi in diversi dojo, pubblici (palestre) o privati. Prima di conoscere seriamente il mio maestro, ho persino tenuto corsi di Aikido nel retrobottega del negozio di un esperto di tappeti orientali, e ho addestrato un giovane investigatore privato all’autodifesa. Avevo vent’anni all’epoca, e un po’ come nei film della Pantera rosa con l’ispettore Clouseau, interpretavo il ruolo di Kato, cercando di attaccarlo a sorpresa a casa sua per testare le sue tecniche di combattimento e i suoi riflessi. Andare più in là a tutti i livelli, non ristagnare mai, avanzare sempre. Scoprire e far scoprire, e grazie a questo comprendere sia fisicamente che intellettualmente, insomma essere vivi.
Per me è sempre stato importante non dipendere dalla mia arte per mantenermi nella vita quotidiana. Economicamente, questo mi ha portato ad essere in difficoltà per tanti, tanti anni, a stare attento ai centesimi nella vita di tutti i giorni, a non condurre una vita da consumatore “soddisfatto di se stesso”, ma forse è per questo che ho potuto approfondire la ricerca, e quindi insegnare.

La libertà

Senza libertà, nessun insegnamento di qualità è possibile! L’insegnante è responsabile di ciò che porta ai suoi allievi, della qualità, nonché delle basi e dell’essenza dei suoi corsi. Oggi tutte le discipline sono inquadrate da regole definite dalle strutture dello Stato, e questo provoca una corruzione del valore di un’arte, perché ciò che fa la ricchezza di una seduta di Aikido non può nascere da un contenuto banalizzato, edulcorato, « pedagogizzato », ma molto di più dall’impegno di chi la conduce. Se i nostri maestri sono stati i nostri Maestri, lo devono più alla loro personalità che alla tecnica che insegnavano. È per questo che si riconoscevano fra loro, per il valore di ciascuno di essi, qualunque fosse la loro arte, il carisma, la personalità. Gli allievi avevano le proprie preferenze, secondo le proprie capacità, i propri gusti per questa o quella tendenza che pensavano di trovare qua o là.

TAO stile sigillare: piccolo sigillo. Calligrafia su tela di Tsuda Sensei.

Una relazione reciproca e asimmetrica

Ogni apprendimento deve basarsi sulla fiducia tra chi fornisce la conoscenza e chi la riceve, ma come suggeriva già Dante Alighieri nel XIII secolo, la relazione come la stima che intercorre tra il « maestro » e l’allievo devono essere “reciproche e asimmetriche” (V. Sermonti, L’Inferno di Dante, Emons Audiolibri – Canto XV). L’importante è che ci sia accettazione da entrambe le parti, non c’è un diritto o un dovere all’inizio, nessun obbligo di imparare, nessun obbligo di insegnare. La ricerca dell’uno e il beneplacito dell’altro creano questa asimmetria. Allo stesso tempo, vi è il riconoscimento reciproco dell’uno verso l’altro in relazione al valore di ciascuno. L’insegnamento non è un prodotto finito da acquistare e consumare senza moderazione. Impegna chi lo elargisce come chi lo riceve. È importante che colui che lo fornisce non sia nella rigidità di chi “sa”, ma nella fluidità di chi comprende e si adatta, senza ovviamente perdere il senso di ciò che dovrebbe comunicare e valorizzare. Il destinatario non è mai una pagina bianca su cui imprimere l’insegnamento e i propri valori; a seconda dell’epoca o anche più semplicemente delle generazioni, possono sorgere distorsioni e possono essere necessari degli adattamenti. È la fiducia reciproca che permette l’approfondimento in un’arte. Se sono solo le tecniche che dobbiamo affinare, pochi mesi o pochi anni sono sufficienti, poi possiamo passare ad altro. Ma potremmo ottenere una vera soddisfazione con un programma del genere?

La mnemotecnica che consiste nel dimenticare¹

Nell’Aikido come altrove in molti apprendistati, si richiede ai principianti di ricordare, se possibile con precisione, la tecnica, il suo nome, la forma da adottare in tali o talaltre circostanze. C’è ovviamente una certa logica in questo processo educativo, ma è diventata una condizione indispensabile nelle federazioni durante i passaggi di grado, di Dan e anche per i passaggi di Kyu. Questo sovraccarico del conscio è profondamente dannoso per il risveglio della spontaneità. Dopo un po’, l’apprendimento diventa non solo noioso, ma a volte anche controproducente, non si ha più voglia di imparare. Se ci si preoccupa del conscio, è perché è più facile da manipolare, specialmente quando è stato abituato a rispondere « presente » da anni di scolarizzazione e di manipolazioni. Ma se invece ci si accontenta di guidare il subconscio, si rimarrà stupiti nel vedere l’individuo svilupparsi in armonia con se stesso e quindi con chi lo circonda, senza bisogno di nascondere la propria natura con maschere sociali che turbano così tanto sia l’organismo che la psiche. Questo passaggio del libro di Tsuda Sensei « Anche se non penso SONO » fa luce sul lavoro del subconscio:
“La nostra attività mentale non inizia solo con lo sviluppo della materia grigia, di quella parte cosciente che ci permette di percepire, ragionare e ricordare. Il conscio risulta dall’accumulazione delle esperienze che abbiamo avuto dalla nascita. Impariamo a parlare, a maneggiare utensili, a cominciare dal cucchiaio, per esempio. Il conscio non costituisce la totalità della nostra attività mentale. Ci sono strade, perché c’è la terra. Senza la terra non ci sarebbero strade. Chiamiamo ‘subconscio’ quella parte della mente che preesiste al conscio. Il subconscio lavora non solo dalla nascita fino alla morte, ma anche durante la gestazione, sentendo e reagendo nel grembo materno, cercando ciò che è piacevole e respingendo ciò che è sgradevole. E così il bambino scalcia quando si sente a disagio. Una volta che una sensazione o un sentimento penetra nel subconscio, controlla tutto il comportamento involontario dell’individuo che non può combattere efficacemente contro di esso con sforzi volontari.”

Regis Soavi aikido ma ai
Il « MA-AI » uno spazio inespugnabile e senza tempo.

Il ruolo del sensei

Il maestro, il sensei non è perfetto, e non ha la vocazione ad esserlo o a pretenderlo. È inutile e perfino dannoso, per lui come per certi allievi, che questi ultimi, nonostante la loro buona fede e senza volerlo, proiettino una tale immagine di perfezione, che non può che essere falsa, sulla sua persona come sul suo lavoro. Imperfetto ma solido, è l’anello di una lunga catena di insegnamento e realizzazione di vita, che, se spezzata, andrà perduta per sempre. Il suo ruolo non è quello di rinchiudere gli allievi in una Scuola, di costringerli, a volte insidiosamente, a una dottrina, ma di permettere a tutti di liberarsi dalla routine per sentire il flusso vitale che percorre questa catena immensa, come un canale di irrigazione capace di irrigare grandi spazi così come piccoli giardini. Occorre inoltre che il terreno sia stato lavorato, reso permeabile e pronto a far crescere in seguito quanto seminato nel corso della vita. Non riproducibile e non industrializzabile, l’insegnamento non potrà mai servire a far fruttare ciò per cui è stato concepito se non è compreso nella sua essenza o assimilato in profondità, dal successore o dai successori e posto al centro della propria vita.

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Articolo di Régis Soavi pubblicato in Self e Dragon Speciale n° 9 nel mese di appril del 2022.

¹ Tsuda Itsuo, Même si je ne pense pas JE SUIS, Le Courrier du Livre, 1981, p. 59

La paura, un’origine acquisita congenitamente?

di Régis Soavi

La paura ha una doppia origine, è prima di tutto una risposta primitiva, atavica, già perfettamente nota, ma ha anche un’origine acquisita congenitamente, ed è quindi proprio per questo una conseguenza della civiltà.
Sebbene possa essere uno dei mezzi di difesa per la sopravvivenza, troppo spesso è diventata un handicap nelle nostre società industrializzate.

La paura nel mondo di oggi tende a precedere quasi ogni azione per un gran numero di persone e non compare per caso, si presenta sotto forma di – ho trovato trentadue sinonimi per questa emozione – timore, apprensione, inquietudine, angoscia, ecc., questi ultimi intersecandosi si demoltiplicano(1) Ogni volta essa annulla l’atto, il gesto, l’iniziativa, o li distoglie dall’obiettivo prefissato, presentandosi come se fosse “la” risposta indispensabile ad ogni problema che si pone.

La respirazione, il suo meccanismo

Il blocco della respirazione e le difficoltà respiratorie di molti nostri contemporanei in caso di aggressione o, soprattutto, di minaccia di un conflitto possono essere spiegati con un meccanismo selvatico involontario, cioè primitivo, che si è irrigidito. Si tratta più di un’abitudine che è nata proprio dalla paura piuttosto che di una mancanza di allenamento a combatterla o a superarla. Blocchiamo l’aria, la comprimiamo, per rispondere nel modo più adatto a ciò che potrebbe accadere. Tratteniamo il respiro, « il fiato » per essere pronti ad agire, immagazziniamo aria con una rapida inspirazione perché per agire, per difenderci, per fuggire, o anche semplicemente per gridare, bisogna espirare. È l’espirazione che permette l’azione aggressiva o difensiva e quindi è l’ispirazione che, precedendola, ci rassicura perché ci posiziona in modo vantaggioso rispetto agli atti che sembrano inesorabilmente seguire. Istintivamente agiamo in questo modo ogni volta che pensiamo di doverci difendere, e questo fin dall’infanzia. In realtà, a prescindere dall’intenzione, non sempre possiamo difenderci, la società non lo permette, ci sono delle regole. In molti casi siamo costretti a rimanere in ansia, bloccati, con il fiato corto senza riuscire a liberarci. Basta ricordarsi della propria infanzia o adolescenza, delle proprie reazioni fisiche durante gli esami o semplicemente di quando uno dei nostri insegnanti interrogava a sorpresa o ci faceva una domanda su un argomento che non avevamo studiato abbastanza, o che avevamo saltato. Ci sono troppe persone per le quali la scuola ha rappresentato un percorso tragico durante il quale l’ansia, per quanto interiorizzata, è stata una delle loro più fedeli compagne nell’avversità. Non è così sicuro che, parafrasando l’aforisma di Nietzsche, « ciò che non ci uccide ci rende più forti ». Dipende troppo dall’individuo, dal momento e dalla situazione, tra le altre cose. Le difficoltà nell’infanzia non sono sempre all’origine di facoltà di resistenza o di resilienza come qualcuno potrebbe pensare, ma possono causare debolezze o handicap e questo spesso deriva in gran parte dal punto di partenza, dalla nascita, dall’ambiente familiare, ecc. Ma essendo la paura divenuta una reazione primaria abituale, un a priori che sorge in ogni circostanza, la soluzione adottata dal corpo attraverso un sistema involontario perturbato rimane sistematicamente la stessa: bloccare la respirazione. Quella che era la risposta corretta, diventa il suo opposto. “La soluzione diventa il problema”(2). Il corpo non riesce più ad espirare o a muoversi, nemmeno a parlare, tanto meno ad urlare. Se qualcosa si sblocca per qualsiasi motivo, allora arriva l’espirazione e con essa l’azione si rivela, il bisogno trova una risposta alla situazione, la paura passa in secondo piano e lascia il posto a reazioni che a volte verranno considerate anche come coraggio o incoscienza, codardia o buon senso a seconda del momento o dell’idea che se ne ha.

Régis Soavi - Essere istintivi
Essere istintivi

Una preesistenza alla nascita

È soprattutto dalla metà del XX secolo che nacque l’ideologia della conservazione della specie umana tramite la protezione delle manifestazioni della vita. Questo concetto di protezione impegnò la società occidentale in una corsa alla medicalizzazione dei corpi che non era mai stata nemmeno immaginata fino a quel momento. Questa profilassi, che poteva essere intesa come una risposta moderna e salvifica, è stata purtroppo effettuata facendo suonare campanelli d’allarme per semplici rischi che prima erano considerati normali e che erano intrinseci alla vita. Provocando così, tramite la paura che hanno generato, un effetto nocebo di un’ampiezza senza eguali in passato.
La prevenzione in gravidanza è diventata negli anni una iper-medicalizzazione che si è banalizzata, e che ha privato in primis la donna, ma anche il padre, seppur in misura minore e per ripercussione, di un rapporto semplice con il corpo, con il proprio corpo. La gioia di portare in grembo un bambino, e la forza che ne deriva, si è trasformata in angoscia per ciò che accadrà, e anche per il suo presente nell’utero, la vita del futuro bambino che subisce il trauma della contrazione che sente, e che è causata dall’inquietudine dei suoi genitori. Purtroppo, l’inquietudine viene trasmessa più di quanto si pensi. Nonostante il desiderio del contrario, della serenità che vorremmo assicurare al bambino, questa preoccupazione si trasforma rapidamente in paura, timore del movimento, dei cambiamenti, e più in generale in apprensione di fronte all’ignoto. Le conseguenze sono facilmente prevedibili: rischi di shock emotivi e fragilità di fronte alle difficoltà che possono persistere nella vita futura del bambino. Durante il parto, se manca la tranquillità, se viene sostituita dall’agitazione o dall’ansia, si creano una tensione e una contrazione che bloccano la respirazione del neonato che non capisce cosa sta succedendo ma ne soffre visceralmente senza poter far nulla. A poco a poco, durante la crescita, la mancanza di risposta a questa incomprensione genererà inizialmente pianti e grida, poi una certa forma di apatia, di rinuncia, con l’abbandono della lotta se non si trova una soluzione soddisfacente a questa richiesta.

Taiheki uno strumento per la comprensione

Ho già avuto modo di spiegare su « Dragon Magazine »(Dragon Magazine Spécial Aîkido, n° 23, janvier 2019.) come la conoscenza dei Taiheki può essere uno strumento di qualità in particolari circostanze per comprendere le reazioni delle persone. La classificazione dei Taiheki sviluppata da Haruchika Noguchi sensei(3) si basa sul movimento involontario umano. Non si tratta di una tipologia che consente di inserire gli individui in piccole caselle, ma di identificare le tendenze comportamentali abituali, tenendo conto delle compenetrazioni che possono esserci tra di loro. Itsuo Tsuda sensei ce ne dà una rapida descrizione in questo estratto di uno dei suoi libri:
«I 12 tipi di Taiheki sono i seguenti:
1. cerebrale attivo 5. polmonare attivo 9. bacino chiuso
2. cerebrale passivo 6. polmonare passivo 10. bacino aperto
3. digestivo attivo 7. urinario attivo 11. ipersensibile
4. digestivo passivo 8. urinario passivo 12. apatico

Da 1 a 10 si vedono le regioni di polarizzazione che sono 5:
cervello, organi digestivi, polmoni, organi urinari, bacino.
11 e 12 sono un po’ speciali, perché corrispondono a delle condizioni più che a delle regioni.
Per una stessa regione, si ha un numero dispari e un numero pari. I numeri dispari si applicano alle persone che agiscono per eccesso di energia, a seconda della regione interessata. I numeri pari sono per quelle persone che subiscono l’influenza esterna a causa di una carenza di energia.» (Itsuo Tsuda, Il Non-Fare, Yume Editions, 2014, p. 79.)
Di fronte al pericolo quando si ha paura le risposte saranno molteplici, ma non lo saranno solo in base all’allenamento o alle capacità, ma anche, e soprattutto, a causa della circolazione del ki nel corpo, di questa energia che può essere coagulata in un punto o in un altro, portando a ristagni specifici e quindi risultati e risposte differenti.no

Régis Soavi - Non lasciarsi sopraffare
Non lasciarsi sopraffare

Gruppo verticale
Perché l’azione si attivi, il ki deve andare al koshi ma quando c’è una coagulazione a livello della prima vertebra lombare, l’energia sale al cervello e ha difficoltà a ridiscendere. Ecco perché le persone di tipo uno, cerebrale attivo, tenderanno a sublimare la paura, a oggettivarla, a farne un oggetto da contemplare per analizzarla, e trovare una soluzione che soddisfi l’intelletto, perché l’azione, soprattutto un’azione immediata, non è la loro principale ambizione. Spesso fraintendiamo questo tipo di posizioni che possono sembrare stupide. Ci si chiede perché la persona non ha reagito in tali o tali circostanze, si troverà forse grazie ai Taiheki una risposta alle domande che ci si può porre sul mistero di certi comportamenti umani.
Le persone di tipo due, cerebrale passivo, sono del tutto consapevoli di ciò che sta accadendo, ma il loro corpo non reagisce come aveva pensato il cervello, sebbene non ci sia nulla di imprevedibile. Non possono controllare la propria energia, che in questo caso scende, ma provoca reazioni fisiche incontrollabili come dolori di pancia o tremori che rendono difficile una risposta adeguata.

Gruppo laterale
In questo gruppo la coagulazione è localizzata a livello della seconda lombare e interessa l’apparato digerente. Ecco perché il tipo tre, digestivo attivo, va in panico mentre cerca di placare la paura, sgranocchia velocemente qualcosina che ha sempre a portata di mano in caso di necessità. Se ha un po’ più di tempo, mangia qualcosa di più sostanzioso, un panino, un pasticcino, l’importante è avere lo stomaco pieno; è grazie a questo che il suo plesso solare si ammorbidisce e la paura diminuisce o addirittura svanisce. Allora diventa diplomatico e cerca di sistemare le cose; se non ci riesce, allora si arrabbia e si lancia in modo disordinato, senza pensare alle conseguenze.
Il tipo quattro, digestivo passivo, rimane inerte di fronte alla paura, incapace di reazioni. È una persona affabile e sembra quasi che la cosa non lo riguardi. Dall’esterno si vede molto poco della sua natura perché ha difficoltà ad esprimere le sensazioni o i sentimenti. Dal punto di vista dell’azione si presenterà come una persona premurosa, cortese, che cerca di appianare le cose, di sdrammatizzare la situazione.

Gruppo avanti-indietro
Il tipo cinque, polmonare attivo, ha tendenza ad inclinarsi in avanti, il che facilita l’azione energica; la regolazione o la coagulazione, o anche il blocco della sua energia si trovano a livello della quinta lombare.
Quando si trova di fronte ad un pericolo, e quindi di fronte alla paura, lo vede come un faccia a faccia. Agisce spesso in modo estroverso, ma è anche uno che ragiona, che calcola; se la paura che prova è logica, la affronterà in modo metodico e si tirerà indietro solo se entra in gioco il suo interesse, cioè, se rischia di rimetterci le penne. Agisce a sangue freddo perché si è preparato, per lui l’allenamento ha sempre una ragione di esistere, al di fuori da ogni sentimento.
Il tipo sei, polmonare passivo, invece, è introverso, inibito, ha un senso di frustrazione, ma d’altro canto si infiamma velocemente, soprattutto a livello verbale; di fronte alla paura si irrigidisce ancora più del solito ma può o esplodere come durante una crisi di isteria o rinchiudersi come un’ostrica, tenere il broncio e aspettare.

Régis Soavi - La postura è essenziale
La postura è essenziale

Gruppo torsione
In questo caso la vertebra interessata è la terza lombare, è quella più in avanti rispetto all’asse della colonna vertebrale, è anche il perno a partire dal quale il corpo si muove dal punto di vista della rotazione. Senza rotazione di questa vertebra e senza curvatura lombare c’è poca possibilità di azione del koshi.
Il tipo sette, urinario attivo, si torce in modo tale da proteggere i propri punti deboli, sia fisici che psichici, non vuol sapere nulla della paura, vuole ignorarla, e funziona. Sa che non può combatterla se non a rischio che essa si rafforzi e lo blocchi nella sua azione, ritiene che bisogna soprattutto non pensare, bisogna tirar dritto, costi quel che costi. Viene spesso considerato come un eroe o un incosciente, se ne frega, semplicemente non può resistere a ciò che lo spinge in avanti, l’azione è la sua ragione di vita e il suo modus operandi.
Il tipo otto, urinario passivo, ha il koshi che diventa duro e il suo spirito combattivo si tende interiormente. D’altra parte, tende a fare il gradasso e si offende per un nonnulla. Affronta la propria paura se c’è un pubblico, o se viene messo in competizione, se un avversario lo sfida. Anche se non può vincere, si ostina in modo da non perdere, mentre il tipo sette vuole assolutamente trionfare. Esagera le condizioni che lo hanno portato ad avere paura e poiché ha una voce forte, a volte può imporsi con i suoi soli schiamazzi.

Gruppo bacino
Nel caso delle persone di tipo nove o dieci, la polarizzazione avviene in tutto il corpo. Si potrebbe dire che c’è una tendenza alla tensione, alla concentrazione, per gli uni e al rilassamento, o addirittura alla lassità permanente, per gli altri.
Nel tipo nove, bacino chiuso, è la tensione a prevalere. Non ha paura facilmente perché il suo intuito gli permette di percepire il pericolo prima che si manifesti. In ogni caso, la paura, anche se presente in un dato momento, non lo ferma mai nelle sue iniziative. È una persona per la quale l’intuizione è più importante della riflessione. È vigoroso ma d’altra parte estremamente ripetitivo, è tenace e piuttosto introverso. La sua energia è interiorizzata a livello del bacino. Rappresenta un esempio per chi vuole osservare la continuità negli esseri umani.
Il tipo dieci, bacino aperto, è il più capace di dissipare energia. Di fronte alla paura trova più forza per proteggere gli altri che per la sua protezione personale; si pensa che agisca per gentilezza, di fatto agendo così dimentica la propria paura e le proprie difficoltà. In caso di pericolo, se è solo, lungi dal cercare di combattere può cercare di fuggire, perché ciò che conta è rimanere in vita e quindi può facilmente essere considerato un codardo, mentre se sono in gioco altre vite è il suo istinto primordiale per la sopravvivenza che scaturisce in modo involontario « per assicurare il futuro della specie umana ». Rischia di soffrire a causa dell’opinione degli altri che ovviamente non lo capiscono in questo genere di casi, e che per questo reagiscono secondo la morale o idee inculcate sul coraggio.

Tipo undici detto « ipersensibile »
Reagisce molto rapidamente difronte alla paura perché vi è abituato, ma questa reazione non produce un’azione, essa sembra piuttosto avere un carattere emotivo ed egli ha una forte tendenza ad esagerarla. Anche se non succede quasi nulla, egli drammatizza perché si produce in lui un’accelerazione del cuore non appena il suo Kokoro viene turbato, può facilmente svenire o sviluppare un attacco d’asma. A causa della sua sensibilità esacerbata, è il candidato ideale per ogni tipo di derisioni, anche se vi sfugge, sa che può diventare un capro espiatorio e subire vessazioni alle quali non saprebbe come rispondere.

Tipo dodici detto « apatico »
Affinché possa reagire di fronte alla paura, ha bisogno di ricevere ordini chiari. Anche se si presenta con un corpo robusto e squadrato, questa è solo un’apparenza in quanto non sa come reagire, a volte lo fa in modo troppo forte, o lascia perdere. Ha tendenza a seguire la massa, ad agire se gli altri intorno a lui agiscono, a fare come tutti o ad aspettare subendo.
Poiché la società tende a iperproteggere i cittadini, negando loro anche il diritto di difendersi da soli, salvo in determinate circostanze molto inquadrate dalla legge, si produce un intorpidimento degli individui che rischia di favorire una direzione che plasma corpi di tipo dodici qualunque sia il Taiheki di partenza.

Senza incidenti, così va l'uomo dabbene, calligrafia di Itsuo Tsuda
Senza incidenti, così va l’uomo dabbene, calligrafia di Itsuo Tsuda

Aikido, una speranza

La normalizzazione del terreno non avviene combattendo la paura. Se questo qualcosa che continua a vivere in noi, che aspira a una maggiore libertà, non si risveglia, è una lotta che rischia di essere solo superficiale. L’insegnamento dell’Aikido mira a rendere gli individui indipendenti e autonomi e non a formare combattenti, ciò non toglie nulla al fatto che si tratta dell’apprendimento di un’arte marziale. Si può imparare perfettamente la falegnameria o la musica senza voler diventare un professionista, ma essendo un appassionato capace di fabbricare un tavolo, o un armadio, capace di apprezzare una sinfonia, come pure un quartetto o un lied. Se si ha una buona formazione, si saprà reagire in modo corretto in ogni circostanza, si saprà valutare la situazione, si sentirà quando bisogna intervenire e come, o se ci si deve astenere da qualsiasi intervento. La pratica dell’Aikido trasforma le persone indipendentemente dal loro passato, dalle loro tendenze, ma solo a condizione che accettino di fermarsi nella loro folle corsa all’acquisizione di tecniche psichiche o fisiche che dovrebbero fornire la soluzione a tutti i problemi, a tutte le paure. La liberazione se è necessaria, a volte può anche venire dall’atto che consiste in un “indietro tutta », per ritrovare l’equilibrio e la forza che ognuno di noi possiede e che aspettano solo di sorgere, di dispiegarsi

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Articolo di Régis Soavi pubblicato in Self e Dragon Speciale n° 8 nel mese di gennaio del 2022.

Notes :

  1. In francese “démultiplier” significa “aumentare la potenza di qualcosa moltiplicando i mezzi utilizzati”, esiste però anche un senso figurato che in italiano manca.
  2. Paul Watzlawick, teoria di Palo Alto.
  3. Haruchika Noguchi, ideatore del Seitai (1911-1976).

 

Una immobilizzazion liberatrice

di Régis Soavi

Un’immobilizzazione che ha la prospettiva di sbloccare, ammorbidire, riattivare un’articolazione, non è forse un paradosso o addirittura un controsenso? Tuttavia, è questa l’ottica che abbiamo nella Scuola Itsuo Tsuda, perché non si tratta di costringere il nostro partner con la coercizione o tramite una tecnica diventata temibile a forza di allenamenti in vista di un’efficacia futura, ma piuttosto di approfittare di questo momento per affinare la nostra sensibilità.

Ritrovare la flessibilità

La Scuola Itsuo Tsuda ha seguito un percorso particolare per quanto riguarda le immobilizzazioni. Invece di considerarle come un blocco assoluto a cui dobbiamo rispondere con sottomissione, e il più rapidamente possibile, pena il dolore che a volte può essere intenso, io le vedo come un’opportunità per ammorbidire le articolazioni, restituire loro la mobilità perduta. C’è un modo di lavorare sulle immobilizzazioni con la respirazione che è molto più un accompagnamento che un blocco. Quando i praticanti ci sono abituati non hanno più paura di essere maltrattati, al contrario, Uke partecipa con Tori all’immobilizzazione evitando di irrigidirsi, respirando più profondamente, per migliorare le sue capacità.

È l’arte di visualizzare la respirazione (il ki) attraverso il braccio del partner che rende possibile entrare in contatto con la respirazione dell’altro. Se il punto di partenza è la coordinazione del respiro (inspiriamo ed espiriamo allo stesso ritmo del nostro partner), è un primo passo da non trascurare perché da esso dipende tutto il resto. All’inizio, e purtroppo per molti anni ancora, tutto quello che si riesce a fare è torcere il braccio per controllare l’altro, con il rischio di danneggiare l’articolazione. Ma a poco a poco, se facciamo attenzione, se non forziamo, possiamo iniziare a sentire la circolazione di un’energia molto concreta e allo stesso tempo molto speciale attraverso l’arto che controlliamo così come in tutto il nostro corpo. Alcune persone ne sono talmente sorprese che si rifiutano di dare a questo l’importanza necessaria e rischiano di perdersi un evento fondamentale, la possibilità di approfondire quella che io chiamo la loro respirazione e quindi di scoprire uno degli aspetti primordiali della nostra arte: l’armonia. È proprio in questi momenti che posso intervenire per far sentire alle persone che la loro sensazione è molto reale, che non è un’immaginazione, toccandole personalmente nella loro sensibilità grazie a una dimostrazione diretta, senza discorsi teorici. A volte faccio vedere anche con infinite precauzioni e con la massima dolcezza come sia possibile, con un partner già ben avanzato, andare molto più in là, non solo nella visualizzazione ma anche nella sensazione concreta che possiamo comunicargli facendo sentire il percorso che prende questa energia rivelatrice di sensazioni. Quando si è attenti e privi di idee preconcette, abbastanza vuoti in un certo senso, e allo stesso tempo ben concentrati, si può avere la sensazione di percorrere, come su una strada, gran parte del corpo. Si comincia dall’estremità della mano, si prosegue fino alla spalla, si raggiunge, sempre con la sensazione, la colonna vertebrale e si scivola molto lentamente verso la terza lombare, che è la fonte del movimento, dell’attività, ed è in relazione con l’hara, la risaia di cinabro come la chiamano i cinesi, oppure il terzo punto del ventre nel Seitai. Questo è possibile grazie ad una percezione che può sembrarci del tutto nuova, mentre è semplicemente una capacità del corpo che usiamo poco o niente, talmente viene dimenticata, a causa dell’irrigidimento fisico e mentale, scarso o addirittura drammatico risultato ottenuto a seguito dei tanti anni in cui abbiamo esercitato il controllo del conscio, del volontario e anche della ragione, sul nostro involontario sulla nostra comprensione intuitiva, sulle radici stesse della nostra vita.

si raggiunge la colonna vertebrale e si scivola molto lentamente verso la terza lombare, che è la fonte del movimento in relazione con l’hara.

Far circolare il ki

Ritrovare nel profondo di noi stessi come far circolare il ki, come pacificarlo, è una ricerca da sempre stimolata dai più grandi maestri. Non è affatto un approccio che mira ad appassionare le persone alla ricerca del meraviglioso, ma piuttosto un approccio orientato verso una realtà verificabile a cui abbiamo la possibilità di aderire purché ci interessi senza a priori. Sono la visualizzazione, l’attenzione, la fluidità nell’esecuzione delle tecniche, nonché la sensibilità, che permettono di lavorare in questa direzione. Un gran numero di arti in Oriente, a volte usando un nome diverso per citare questa ricerca, sono in grado di dimostrarne il valore: il Tai Chi, il Qi Gong tra le altre per la Cina, così come il Kyudo, lo Shiatsu o il Seitai in Giappone. Del resto se ci si informa, si troverà una serie di civiltà in tutto il mondo che, con nomi diversi, hanno saputo preservare ed evidenziare questa dimensione di grande valore che è il ki.

Tutto dipende dalla direzione che prendiamo dall’inizio nella pratica dell’Aikido. Tsuda sensei ce lo ricordava con una certa ironia quando citava il suo maestro: “Il Maestro Ueshiba non smetteva di ripetere che l’Aikido non è uno sport, né un’arte di combattimento. Ma oggi, è considerato ovunque come uno sport di combattimento. Da dove viene questa differenza di concezione così flagrante? »(1). Pur lasciandoci riflettere su questa antinomia, questo paradosso, si guardava bene dal negare l’efficacia dell’Aikido quando veniva praticato dallo stesso O sensei. “Il M° Ueshiba immobilizzava a terra i giovani praticanti di Aikido, solo posando loro un dito sulla schiena. A prima vista la cosa sembrava inverosimile. Qualche anno di pratica mi ha permesso di capire che ciò è possibilissimo. Non si tratta di premere con la forza di un dito, ma di farci passare il kokyu, di dirigere la respirazione attraverso il dito.”(2)

L’essenza

Se si vuole che l’immobilizzazione sia nello spirito di cui parlava O sensei, quella che consiste nel ripulire le articolazioni dalle scorie che le intralciano, dalle tensioni che ne diminuiscono le capacità, allora la postura è di primaria importanza. O sensei considerava che la pratica dell’Aikido fosse un Misogi, vale a dire che si trattava di sbarazzarsi delle impurità accumulate: « La Terra è già stata portata alla perfezione… Solo l’umanità non si è ancora del tutto realizzata. E questo a causa dei peccati e delle impurità che sono entrati in noi. La forma delle tecniche di Aikido è una preparazione per sbloccare e ammorbidire tutte le articolazioni del nostro corpo ».(3) Per controllare i movimenti e reprimere un avversario in modo tale che gli sia impossibile reagire, è sufficiente essere solido, stabile, avere una buona conoscenza tecnica e, naturalmente, essere determinato. Per chi invece vuole agire in modo da rendere più libera un’articolazione, ad esempio, sono la sensibilità, la morbidezza e una buona conoscenza delle linee che uniscono il corpo ad essere necessarie. Niente può essere fatto senza l’accordo e la comprensione di Uke, con il quale ovviamente non si tratta di darsi delle arie da guaritore, da guru che sa tutto, o di imporre sottilmente « per il suo bene » questo o quel modo di fare. C’è un’altra conoscenza oltre a quella che ci viene fornita dall’anatomia, questa può certamente servire come base per una minima comprensione, ma come amatori, nel senso migliore del termine, cioè appassionati della nostra arte, è di primaria importanza non limitarsi all’aspetto strettamente fisico della tecnica.

La postura

La postura di chi esegue un’immobilizzazione tipo Nikyo o Sankyo, anche se essenzialmente molto concentrata, è ancora più impegnativa se vogliamo andare più in là. L’approccio, l’attitudine, la ricerca cambiano la nostra corporeità e le permettono di acquisire una dimensione diversa, allo stesso tempo più morbida, più fine, più sensibile. È indispensabile fondersi con il partner, adattarsi inizialmente alla postura dell’altro per permettergli di trovare il suo posto, di posizionare il suo corpo in modo che possa ricevere nel miglior modo possibile il gesto, l’atto che consentirà la distensione, o addirittura l’attesa liberazione. Ma l’immobilizzazione non comincia a terra, già nella presa del polso deve esserci l’impossibilità di movimento aggressivo da parte di Uke. In questo caso, come per la maggior parte delle tecniche, la postura e il « Ma » (la distanza) sono nonostante tutto determinanti allo stesso modo della ferma delicatezza della presa.

La postura e il « Ma » (la distanza) sono determinanti.

Sentire l’altro

Se parlo di delicatezza è perché molti principianti cercano con la forza quello che è il risultato di una lunga pratica, di una lunga ricerca. Molto spesso rafforzano la loro tecnica, alla ricerca della potenza, perfezionando la precisione, a discapito della sensazione che si può avere dell’insieme del corpo se, da una parte, si è compresa fisicamente, a livello dell’Hara, la circolazione dello Yin e dello Yang, e se, dall’altra, invece di approfittare dell’occasione per soddisfare il proprio ego, ci si è posizionati in un atteggiamento, direi, di benevolenza verso il proprio partner. Dire che l’Aikido sviluppa una migliore comprensione dell’essere umano è una banalità, dire che si percepisce meglio l’anima umana ci fa entrare nella sfera dei mistici, avere la pretesa di sentire ciò che sta accadendo « nel corpo, nello spirito dell’altro » sembra semplicemente delirante e al di là di ogni ragione. Eppure non è così diverso da quello che fanno i genitori premurosi quando si prendono cura del loro neonato. Itsuo Tsuda ne dà un’idea nel capitolo 3 « Il bambino educatore dei genitori », del suo ultimo libro Face à la science, di cui ecco un passaggio:

“Saper trattare bene il bambino è per me l’apice delle arti marziali.
Sentendo la mia riflessione, un francese ha sussultato: ‘Come è possibile accettare un’idea così assurda, bizzarra e incomprensibile come associare il bambino alle arti marziali? […]’. Ovviamente, per una mente occidentale, sono due cose completamente diverse, non correlate. Le arti marziali, in fondo, non sono altro che arti di combattimento. Si tratta di schiacciare gli avversari, difendersi dalle aggressioni. Se il tuo avversario è lì, sferri un calcio di karate. Se è più vicino, applicherai una certa tecnica di Aikido. Se ti afferra per i vestiti, lo proietterai con una tecnica di judo. Altrimenti, estrai il coltello e piantaglielo nel ventre. Se puoi tirar fuori la tua 6’35, ancora meglio. […] Si tratta insomma di accumulare i vari e complicati mezzi e tecniche di aggressione e di riempire l’arsenale. […] Tuttavia, oltre ad ai uchi, c’è ai nuke, uno stato d’animo che consente agli avversari di passare attraverso il pericolo di morte senza distruggersi a vicenda. Ci sono pochissimi maestri che hanno raggiunto questo stato d’animo nella storia. L’Aikido del Maestro Ueshiba, da quello che ho sentito, era completamente impregnato di questo spirito di ai nuke, che lui chiamava « non resistenza ». Dopo la sua morte, questo significato è scomparso, è rimasta solo la tecnica. Aikido originariamente significava la via di coordinazione del ki. Inteso in questo senso, non è un’arte di combattimento. Quando viene stabilita la coordinazione, l’avversario cessa di essere avversario. Diventa come un pianeta che ruota attorno al Sole nella sua orbita naturale. Non c’è lotta tra il Sole e il pianeta. Entrambi escono indenni dall’incontro. La fusione è benefica e arricchente per l’uno come per l’altro. […]
Se il bambino emettesse grida ben distinte, […] sarebbe più facile. Ma non è così. È solo l’intuizione dei genitori che permette di distinguere queste sottili sfumature. È l’impegno totale dei genitori che salva la situazione. Se non attribuiscono loro tanta importanza come se fossero sotto la punta di un’arma da taglio, se sono distratti al punto da pensare solo di tirare fuori la propria « bambola » per mostrarla agli altri: ‘Il nostro bambino è il bambino più bello della regione’, nessun altro può costringerli.
Ecco delle condizioni che associano il bambino alle arti marziali. Inutile elencare molte altre condizioni. Niente vale quanto l’esperienza vissuta. […] Uno dei rari ambiti che ancora rimane e che richiede questo totale abbandono del “io intellettuale” è la cura del bambino. Mantenere questa cura nella sua purezza, nel senso della coordinazione del ki, è un lavoro colossale quando ci sono tante soluzioni facili che sono pratica corrente ».(4)

La ferma delicatezza dell’immobilizzazione permette di ammorbidire le articolazioni.

Il Seitai

Senza il mio incontro con il Seitai e soprattutto senza la pratica del Katsugen undo (Movimento rigeneratore) non avrei mai scoperto possibilità come quelle che ho citato. La pratica regolare del Movimento rigeneratore lungo gli anni è una delle chiavi per l’approfondimento di ciò che Tsuda Sensei chiamava la respirazione, quest’arte di sentire la circolazione dell’energia vitale che altro non è che una delle forme che il Ki assume quando si manifesta in modo concreto e sensibile. Uno degli esercizi che pratichiamo durante le sedute di Katsugen undo si chiama Yuki ed è una delle pratiche del Non-Fare che, ben orientate, permette di realizzare la fusione di sensibilità con un partner. Sta ad ognuno usarlo nella vita di tutti i giorni e a maggior ragione nell’Aikido o in qualsiasi altra arte marziale. Se tutte le situazioni non sembrano favorevoli a ciò quando si inizia, è sicuramente una possibilità, una strada da percorrere, che mi sembra adeguata e che si può scoprire, soprattutto nei momenti più tranquilli come durante un’immobilizzazione o lo zanshin che la segue.

Questo è il percorso che ci indicava Tsuda sensei, il percorso che lui stesso aveva seguito sulle orme dei suoi maestri Morihei Ueshiba per l’Aikido, Haruchika Noguchi per il Seitai o, in un altro modo, dei suoi maestri occidentali, Marcel Granet e Marcel Mauss – rispettivamente per la sinologia e l’antropologia – che ha avuto anche modo di conoscere personalmente.
Questo percorso, « il Non-Fare » o « Wu wei » in cinese, non ha nessun limite o profondità definibile, ogni praticante deve fare la propria esperienza, verificare a che punto è e accettare i suoi limiti per approfondire continuamente invece di accumulare.

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Articolo di Régis Soavi pubblicato in Self e Dragon Speciale n° 5 nel mese di april del 2021.

Notes:

1) Tsuda Itsuo, La Voie des dieux, Le Courrier du Livre (1982), p. 58.

2) Tsuda Itsuo, La via della spoliazione, Yume Editions (2016), p. 106.

3) Ellis Amdur, Hidden in Plain Sight: Tracing the Roots of Ueshiba Morihei’s Power, Freelance Academy Press (2018), p. 292, traduzione Scuola Itsuo Tsuda.

4) Tsuda Itsuo, Face à la science, Le Courrier du Livre (1983), pp. da 24 a 27.

Foto: Paul Bernas e Bas van Buuren

 

Fudoshin: lo spirito immutabile

di Régis Soavi

Il lavoro di Jiyuwaza può essere considerato in diversi modi e ogni Scuola ha un proprio modo di vederlo, di praticarlo. La Scuola Itsuo Tsuda, per quanto la riguarda, ne ha fatto incontestabilmente una delle basi del proprio insegnamento, della propria pedagogia.

Jiyuwaza: “il movimento libero”

Tsuda sensei, benché giapponese, usava molto raramente termini tecnici della sua lingua materna. Intellettuale di grande finezza, scrittore e filosofo, conferenziere e tecnico Seitai, accordava una grande importanza al fatto di essere, per quanto possibile, sempre ben capito. Inoltre, poiché padroneggiava perfettamente la lingua francese, utilizzava unicamente questa durante le sedute di Aikido. Per me che seguivo all’epoca tutti i sensei che venivano in Francia, era abbastanza strano ascoltarlo spiegare una tecnica o anche mostrarla senza nemmeno dire il nome in giapponese. Alcuni allievi che conoscevano solo il suo Aikido erano abituati e non erano affatto scioccati. Personalmente ho mantenuto l’uso dei nomi giapponesi, come mezzo di comunicazione nel mio insegnamento, solo quando è indispensabile, ed è diventato una tradizione nei nostri dojo. È per questo che nella nostra Scuola quello che chiamiamo « movimento libero » alla fine di ogni seduta, prima di fare il kokyu ho, è un esercizio che potremmo chiamare « Jiyuwaza ». È una specie di randori leggero ed è un momento molto importante, poiché gli spazi tra le persone sono ridotti dal fatto che tutti si muovono nello stesso tempo in tutte le direzioni, e che ognuno agisce come vuole seguendo la propria ispirazione, in funzione del proprio partner, o dell’angolo nel quale si trova rispetto all’altro. A volte, senza transizione, continuando l’esercizio e senza che nessuno torni a sedersi, faccio cambiare partner. Poi dopo qualche minuto, di nuovo, dico: « Cambiare », poi alla fine annuncio con un sorriso: «Bagarre generale!» e allora si crea una mischia allegra in cui ognuno è Uke e Tori, a turno o allo stesso tempo. È il caos ma leggero, di modo che nessuno si faccia male, eppure è importante che ognuno dia il massimo in funzione del proprio livello. È un esercizio importante che faccio fare spesso durante gli stage dove c’è tanta gente, perché ci dà l’idea di ciò che siamo capaci di fare in una situazione ingarbugliata. È primordiale che gli attacchi portati non siano violenti, che non provochino la paura ma che siano sufficientemente decisi da sentire la continuità del ki nel gesto. Se sono superficiali o esitanti si perde il proprio tempo, oppure ci si illude sulle proprie capacità. È un processo di apprendimento difficile, che richiede anche anni, ma è di grande importanza pedagogica, motivo per cui pratichiamo il “movimento libero” a due quotidianamente alla fine di ogni seduta.

Ancora una volta la sfera

mormyridae
Mormyridae: trasformando gli impulsi elettrici in suono, quindi in linee, abbiamo un’immagine della sfera di questi pesci.

È guardando un documentario sull’evoluzione che mi aveva mandato uno dei miei allievi durante il confinamento che, come lui, mi sono stupito nello scoprire la rappresentazione visiva della sfera che circonda un particolarissimo pesce appartenente alla famiglia dei Mormyridae. Sebbene conosciuti fin dalla più remota Antichità perché, curiosamente, sono stati spesso rappresentati negli affreschi e nei bassorilievi che adornano le tombe dei faraoni, sono state appena scoperte su di loro qualità notevoli. Si tratta di pesci che hanno uno scheletro osseo, cosa già piuttosto rara. Oltre a questa particolarità, hanno delle facoltà insolite. Cacciano e comunicano tramite impulsi elettrici, emettendo scosse elettriche leggere (tra 5 e 20 V), ed estremamente brevi, inferiori a un millisecondo, che si ripetono a velocità variabile e senza interruzioni superiori a un secondo. Un organo particolare produce questo campo elettrico che circonda il pesce. Trasformando gli impulsi elettrici in suono, poi in linee, possiamo successivamente averne un’immagine come quella nella pagina accanto (questo dipende dall’impaginazione, quindi è eventualmente da cambire in sopra o sotto): in questo modo possiamo visualizzare la sfera di questi pesci. Essi utilizzano tale sfera anche come sistema di difesa. Grazie a questo campo possono differenziare un predatore da una preda o da un loro simile. Quando un predatore entra in questo campo, lo deforma e questa informazione viene immediatamente comunicata al cervelletto. Il cervelletto in essi è nettamente più grande del resto del cervello. Questa capacità di produrre e analizzare una corrente elettrica debole è loro utile per orientarsi nello spazio, e permette loro di localizzare ostacoli, di individuare prede, anche in acque torbide o in assenza di luce.

Una rappresentazione mentale o una funzione del cervelletto

La sfera nell’essere umano è forse solamente una rappresentazione mentale delle capacità inconsce che possiede – lo sapremo forse tra diversi anni o secoli – ma ciò non toglie nulla alla sua realtà, percepita dal praticante di arti marziali, né alla sua efficacia. Il ki, questa sensazione enigmatica della nostra stessa energia, della nostra osservazione, dell’atmosfera, che tutti i popoli hanno conosciuto e trasmesso nelle proprie culture senza poterle dare una definizione precisa, potrebbe essere la risposta, certamente considerata come non scientifica, ma che ha una realtà empirica attestata dall’esperienza di molti maestri, sciamani o mistici. Se cerchiamo risposte nel campo delle scienze cognitive, possiamo trovare elementi che, messi insieme, danno corpo a questa ricerca.
Il cervelletto gioca un ruolo importante in tutti i vertebrati. Nell’essere umano il suo ruolo è assolutamente essenziale nel controllo motorio, che è la capacità di effettuare aggiustamenti posturali dinamici e di dirigere il corpo e gli arti in modo da compiere movimenti precisi. È determinante inoltre in alcune funzioni cognitive ed è anche coinvolto nell’attenzione e nella regolazione delle reazioni di paura e piacere. Contribuisce alla coordinazione e sincronizzazione dei gesti e alla precisione dei movimenti. In un attacco simultaneo di più persone, le arti marziali – e l’Aikido in particolare – devono aver preparato l’individuo, grazie alla ripetizione e alle sequenze durante i kata o nei movimenti liberi, a fornire le risposte necessarie per uscire da questo tipo di situazione. Quando si tratta di sopravvivenza, gli « organi » che sono cervelletto, talamo e sistema motorio extrapiramidale devono essere pronti. L’apprendimento deve essere stato di qualità, includendo la sorpresa, l’attenzione e persino una sorta di apprensione, in modo che l’involontario trovi dove attingere durante queste esperienze per mettere in atto i gesti giusti.

Essere come un pesce nell’acqua

Jiyuwasa è come una danza in cui l’involontario è il re. Non si tratta di essere il sovrano onnipotente che governa subordinati o tirapiedi, ma piuttosto di entrare in un mondo sottile dove la percezione, la sensazione ci guidano. Come il pesce sopra citato, si tratta di sentire il movimento dell’altro quando si dispiega e tocca la nostra sfera, soprattutto per non partire prima, con il rischio che l’attacco cambi direzione, ma essere in una posizione, una postura, che suscita un certo tipo di gesto e quindi di risposta. La tecnica non deve essere prevista né prevedibile, ma adattabile e adattata alla forma che cerca di raggiungerci. Una rilettura di Sun Tzu ci offre alcune citazioni scelte come: “Se conosci il nemico e conosci te stesso, la vittoria è assicurata. Se conosci il Cielo e la Terra, la tua vittoria sarà totale. »(1). Conoscere, ignorando cosa accadrà: come fare? È attraverso la fusione di sensibilità con il partner che possiamo scoprire come dobbiamo comportarci, come dobbiamo agire, reagire senza prima riflettere, senza esitazione. A poco a poco da questo tipo di esercizio nasce una sorta di fiducia in cui tutte le risposte sono possibili. È il momento di andare più lontano, di chiedere al nostro partner di essere più sottile, e anche più tenace. Deve, ogni volta sia possibile, capovolgere i ruoli e presentarsi come se fosse Tori invece che Uke.

regis soavi aikido fudoshin
Si tratta di sentire il movimento dell’altro mentre si dispiega e tocca la nostra sfera.

Fudoshin

Quando si pratica con diversi partner o quando si tratta di uscire dalla comodità della pratica quotidiana con persone che si conoscono, per esprimere ciò che alcuni chiamano il potenziale, si verificano varie reazioni di tensione, il corpo che teme questo incontro diverso si tende, e diventa rigido. Tsuda Itsuo sensei ci dà una risposta, o meglio esegue una decodifica della situazione attraverso un testo di Takuan che cita, sviluppando per gli occidentali che siamo, due o tre concetti che ci illuminano sui comportamenti e le risorse che dobbiamo trovare nel più profondo di noi stessi.

“Come uscire da questo stato di torpore è il problema principale per chi esercita la professione delle armi. A questo proposito, è tuttora celebre un testo, Fudôchi Shimmyô roku, La Sagezza immutabile, scritto da Takuan (1573-1645), un monaco zen, che dava consigli a uno dei discendenti della famiglia Yagyû, incaricata dell’insegnamento della spada presso lo shogunato Tokugawa.
‘Fudô vuol dire immobile’, dice, ‘ma questa immobilità non è quella che consiste nell’essere insensibile come la pietra o il legno. Si tratta di non fissare lo spirito, mentre si va avanti, a sinistra e a destra, muovendosi liberamente, come desiderato, in tutte le direzioni’. L’immobilità, secondo Takuan, è dunque essere imperturbabile nello spirito, non si tratta assolutamente di immobilità senza vita. Significa non rimanere nella stagnazione, poter agire liberamente, come l’acqua che scorre. Quando si rimane bloccati a causa della fissazione su un oggetto, il nostro spirito, il nostro kokoro è perturbato dall’influenza di questo oggetto. L’immobilità rigida è il terreno propizio allo smarrimento. ‘Anche se dieci nemici ti attaccano, ognuno con un colpo di spada’, dice, ‘basta lasciarli passare, senza bloccare la tua attenzione ogni volta. È così che puoi fare il tuo lavoro senza impedimenti di uno contro dieci.’ […] La formula di Takuan è di vivere nel presente, al massimo, senza essere in alcun modo ostacolati dal passato che sfugge. »(2)
La maestria per ognuno di noi, per quanto relativa possa essere, è sempre, qualunque siano le nostre capacità, le nostre difficoltà, o talvolta anche le nostre facilità, il risultato di una vita di lavoro e allenamento. Frédéric Chopin, quando aveva appena suonato a memoria quattordici preludi e fughe di Jean-Sébastien Bach, aveva dichiarato ad una sua allieva durante una lezione privata: «L’ultima cosa è la semplicità. Dopo aver esaurito tutte le difficoltà, aver suonato una quantità immensa di note e note, è la semplicità che ne esce con il suo fascino, come l’ultimo sigillo dell’arte. Chiunque voglia arrivarvi subito non ci riuscirà mai; non si può iniziare dalla fine.»(3)
A prescindere dall’essere Musicista, Artigiano, Monaco zen o Sensei di arti marziali, sono la sincerità nel lavoro e il piacere condiviso che ci guidano verso la semplicità, verso Fudōshin, lo spirito immutabile.

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Articolo di Régis Soavi pubblicato in Self e Dragon Speciale n° 3 nel mese di ottobredel 2020.

Note :
1) Sun zi, L’art de la guerre, Guy Trédaniel Éditeur, 2011, p. 69. In italiano Sun Tsu, L’arte della guerra, Feltrinelli, 2013.
2) Tsuda Itsuo, La Voie des dieux, Le Courrier du Livre, 1982, pp. 72-73.
3) Guy de Pourtales, Chopin ou le poète, Gallimard, 1940, p. 145.

Foto: Bas van Buuren e immagine tratta da La favolosa storia dell’evoluzione: l’Albertine Rift, Arte France

Aikido: una via di normalizzazione del terreno del corpo

di Régis Soavi

Aikido Journal: “L’Aikido può ancora sopravvivere dopo più di tre mesi d’interruzione?(1)

Règis Soavi: “Chi parla di interruzione di più di tre mesi della pratica? Secondo le nostre fonti, che in realtà sono dei contatti diretti, fatta eccezione per tre o quattro persone che avevano cominciato da meno di uno o due mesi, nessuno dei membri del nostro dojo ha smesso di praticare (a casa propria). Anzi, per alcuni, il confinamento ha loro permesso di fare quella che noi chiamiamo la Pratica respiratoria (comunemente chiamata Taiso nelle altre Scuole) tutte le mattine quando di solito il lavoro non permette loro che tre o quattro sedute alla settimana.
Certo che il luogo, il dojo, è rimasto chiuso. Sebbene, essendo io stesso confinato a Parigi per ordine dello Stato, ma abitando accanto al dojo, ho potuto continuare ad andarci e mantenervi la Vita. Ogni mattina con la mia compagna (confinata con me) abbiamo potuto, dopo il Norito Misogi no Harae che recito prima delle sedute, fare la pratica respiratoria. La risonanza creata dagli “Hei Ho” al momento del Funakogi undo o dal battito delle mani che ritmano gli esercizi iniziali, ha permesso penso di mantenere questo spazio “pieno”, nel senso della pienezza del Ki. Il dojo non è mai stato vuoto.”

A.J.: “La ripresa della pratica nella sua forma abituale sarà possibile al rientro o dovrà attendere lo sviluppo e l’introduzione di un vaccino efficace contro la SARS-CoV-2?”

R.S.: “ Aikido: La via, è un’autostrada?(2 )
È più necessario che mai normalizzare il nostro terreno al fine di permettere una reazione del corpo che sia nello stesso tempo sana e rapida. Se il Katsugen undo (Movimento rigeneratore) è una risposta specifica per permettere al corpo di reagire, l’Aikido, per quanto lo riguarda, – se è praticato in maniera regolare con l’attenzione e la concentrazione indispensabili – è una pratica che va nella medesima direzione. A condizione naturalmente di dimenticare l’aspetto “voglio un’efficacia immediata e facile”. Negli statuti dei nostri dojo figura sempre questa raccomandazione di Tsuda Sensei sullo spirito della pratica: “senza conoscenza, senza tecnica, senza scopo”. Queste indicazioni – di spirito molto zen si dirà – fanno della nostra Scuola una Scuola molto particolare, non è certo la sola, ma questo tipo di Scuole è diventato raro e adesso comincia ad essere di nuovo ricercato per le sue specificità.
È attraverso la mobilitazione dell’unità dell’Essere che il corpo fisico ritrova delle capacità troppo spesso dimenticate, sottovalutate, sopravvalutate, o ancora disprezzate, ma in tutti i casi troppo spesso sottoutilizzate. Perché il Tai Chi Chuan e il Qi Gong, qualsiasi sia la Scuola, hanno potuto continuare, progredire e fiorire mentre molti club d’Aikido hanno avuto meno iscritti e poi talvolta sono morti lentamente? Non sarà forse perché hanno saputo mettere in evidenza l’aspetto salute, sviluppo personale, nonché l’aspetto distensione della loro pratica, di fronte allo stress provocato dai modi di vivere moderni, piuttosto che il lato marziale che eppure esiste in numerose Scuole e – oserei anche dire – esiste in maniera sottesa in tutte le Scuole? Non hanno avuto paura a mettere in primo piano dei valori che sono o dovrebbero essere i nostri, quali la circolazione del ki (il Chi o Qi) e l’importanza dell’unità del corpo per mantenere la salute psichica tanto quanto quella fisica.

Immunità crociata
Dopo averci rinchiusi, confinati nelle città e nei paesi, dopo aver infuso la paura alla maggioranza della popolazione mondiale, oggi ci parlano dell’immunità crociata come se fosse una scoperta. Ma non ci si pone la domanda della capacità di resistenza, di resilienza dell’essere umano da migliaia di anni? Se l’essere umano esiste ancora, non è perché è fondamentalmente radicato nella Natura con la N maiuscola e non nella natura intesa come ambiente – che del resto tratta così male? Noi siamo una parte non separata dalla “Natura”, conduciamo una vita in simbiosi con quello che ci circonda, siamo fondamentalmente dei Simbionti. I batteri, tanto temuti, non esercitano solo un ruolo patogeno, essi sono per esempio anche all’origine della nostra capacità di respirare, grazie alla loro mutazione in mitocondri (3); senza il loro lavoro saremmo incapaci di digerire gli alimenti e quindi di nutrirci; grazie al loro lavoro partecipano ai nostri sistemi di difesa facendo barriera contro degli elementi pericolosi. I virus, i retrovirus, per quanto li riguarda, hanno un ruolo nella nostra capacità di vivere e di superare le difficoltà e gli ostacoli: alcuni tra loro sono dei batteriofagi, altri, spesso molto antichi, intrappolati che siano in delle parti ancora incomprese del DNA (parti così incomprese da essere state anche chiamate “rubbish” o “spazzatura”), servono da miniera di informazioni – un po’ come un’immensa biblioteca – per il sistema immunitario, a condizione che lo si lasci lavorare ogni volta che ne abbia bisogno.
Che ne è dell’equilibrio in questi giorni di paura La società ci propone, ci impone sempre maggiori protezioni, e noi siamo sempre più disorientati davanti alla difficoltà. Nell’Aikido si parla di allenamento, si vuole un corpo forte, forse bisognerebbe anche pensare ad allenare il nostro sistema immunitario, e non impedirgli di fare il proprio lavoro.

La paura, una banalità
La paura è la grande responsabile, e ci viene inculcata a partire dalla nostra più tenera infanzia, con gentilezza, con buona volontà, per il nostro bene. Tutto questo senza quasi che nessuno se ne renda veramente conto. Tutta la nostra cerchia vi partecipa: genitori, famiglia, educatori, insegnanti, media. La paura del dolore, la paura della malattia, la paura della morte. Si deve fare attenzione, diffidare di tutto, del minimo raffreddore, della febbre più lieve, di un minuscolo foruncolo, tutto deve essere trattato, analizzato, catalogato, c’è pericolo ovunque, l’individuo arriva a pretendere di essere rinchiuso in un bunker, che sia fisico o mentale, che deve contenere un morbido bozzolo di protezione perfettamente rassicurante. Tutto questo sembra normale, perché privarsi di questo bozzolo, privarne gli altri, i nostri amici, i nostri familiari? La società moderna ha alterato il senso della vita e l’ha rimpiazzato con il suo consumo passivo, i propagatori di questa nuova ideologia ne hanno fatto un oggetto del desiderio, a volte un oggetto di culto come durante il confinamento, ma sempre un oggetto. Si può invertire la rotta? Fare marcia indietro? Ciò avrebbe un senso? Saremmo presto trattati come pazzi, gruppo settario pericoloso, da eliminare rapidamente in quanto “rischio di contagio ideologico”. Se la soluzione c’è, è individuale, ragionevole e responsabile, nei confronti di se stessi come di quelli che ci circondano.

A.J.: “Nel contesto della diminuzione del numero di praticanti e dell’invecchiamento di questi, l’Aikido ha ancora una possibilità di sopravvivenza dopo più di tre mesi d’interruzione?”

R.S.: “ Il mito della vecchiaia”
Mi si dice. “Non ci sono più giovani praticanti nei dojo di Aikido! Vanno tutti a praticare dei Budo considerati più efficaci, più volontari!” Perché un tale disfattismo? E se invece di fare “un po’ di più della stessa cosa”, come enuncia la teoria dei ricercatori di Palo Alto, riflettessimo su quello che ci ha fatto venire, noi, in un dojo di Aikido piuttosto che scegliere un’altra arte? E se la nostra forza fosse altrove, se il valore dell’Aikido non fosse nell’apprendimento del combattimento ma fosse nell’arte della fusione della respirazione, nello sviluppo della sensibilità, nel favorire le ricerche sulla sensazione della sfera, l’intuizione, la liberazione dell’essere umano vero che dorme nel profondo di ciascuno di noi? Questo non forma delle persone deboli ma, la contrario, delle persone capaci di andare a cercare quello di cui hanno bisogno al momento giusto anche in un ambiente difficile, se non pericoloso. E se la nostra forza fosse l’involontario, e il suo punto d’arrivo il “Non-Fare”? Ma come arrivare a risvegliare questa forza? Se non la si è conservata dall’infanzia, forse abbiamo semplicemente bisogno di ritrovarla e per fare questo abbiamo bisogno di maturare, a volte abbiamo anche bisogno di eliminare le false buone soluzioni, le illusioni, gli stratagemmi. O Sensei Morihei Ueshiba ha cercato per tutta la vita nella pratica dei Budo così come attraverso il Sacro, e questa ricerca era la realizzazione stessa della sua vita. Non è andato in pensione a sessant’anni per diventare direttore di un club. È stato un esempio per quelli che, come Tsuda Sensei, l’hanno conosciuto personalmente. Un esempio e sicuramente non “una persona a rischio” da dover proteggere. Come si fa oggi con i più anziani negli istituti specializzati.
Non resisto a citare un piccolo passaggio di un testo che Itsuo Tsuda aveva pubblicato sotto forma di quaderno all’inizio degli anni settanta e che ho conservato gelosamente fino alla sua pubblicazione ufficiale in una raccolta postuma nel 2014. Questo passaggio la dice lunga sullo stato d’animo di questo maestro fuori dal comune che ho avuto la possibilità di seguire per più di dieci anni e che ha impregnato così fortemente il mio percorso nella pratica della nostra arte.

Itsuo Tsuda scrive
“Ho cominciato l’Aikido a l’età di quarantacinque anni, età alla quale si rinuncia in generale a ogni movimento che rischia di essere violento. Per più di dieci anni, tutte le mattine, andavo alla seduta che cominciava alle ore 6.30, alzandomi alle 4, senza sosta, anche se capitava di mettermi a letto alle due del mattino o perfino se avevo la febbre a quaranta gradi, e questo, per il piacere di vedere questo maestro ottuagenario camminare sui tatami. Dei compagni del dojo mi dicevano: «Ha una volontà di ferro». Al che io replicavo: «No. Ho una volontà talmente debole che non riesco a smettere di continuare». Questo provocava un allegro scoppio di risate tra loro, ma ero sincero.”(4)

Régis soavi, articolo pubblicato sul n. 75 di AikidoJournal, ottobre 2020 Tema: confinamento e Covid-19

  1. In Francia il primo confinamento a causa del covid-19 è iniziato il 17 marzo ed è finito l’11 maggio 2020, ma si è potuto riprendere la pratica dell’Aikido solo il 12 luglio.
  2. Itsuo Tsuda, Uno, Yume editions, 2019, p. 31.
  3. Marc-André Selosse, Jamais seul, Ed. Actes Sud, 2017.
  4. Itsuo Tsuda, Cœur de ciel pur, Le Courrier du Livre, 2014, p. 110.

 

La violenza, un “Fatto sociale”

di Régis Soavi. 

La violenza è un argomento così vasto e di tale densità che mi sembra impossibile affrontarne adeguatamente tutti gli aspetti in un articolo. Tuttavia è sempre un tema importante quando si affronta la questione dell’essere umano.

Émile Durkheim: definizione del “fatto sociale”

Prima di parlare della violenza, delle sue conseguenze e di prendere posizione nei suoi confronti, mi sembra utile situarla sociologicamente, e penso che vi si possa ttribuire la definizione di “fatto sociale” formulata da Durkheim, perché non solo ci fornisce il quadro che ci consente di analizzarla, ma contiene anche in sé, grazie al suo rigore e alla sua semplicità, le chiavi per trovare la base del problema.
“Il fatto sociale è qualsiasi modo di fare, stabilito o no, suscettibile di esercitare sull’individuo una costrizione esterna; o ancora, che è generale all’interno di una data società in quanto ha una sua propria esistenza, indipendente dalle sue manifestazioni individuali”.1 È legittimo a questo livello porsi una domanda. La violenza è un fenomeno abbastanza frequente da essere considerato regolare e abbastanza esteso da essere descritto come collettivo? Possiamo dire che è al di sopra delle coscienze individuali e che le limita con il suo predominio? Anche senza essere esperti in sociologia si può solo rispondere che questo è ovvio. Per sostenere questa teoria, ho trovato in un recente articolo sulla guerra d’Algeria questa osservazione di una sociologa che propone un’altra visione di questi eventi che conferma – se ce n’era bisogno – questo posizionamento.
“La violenza è esterna agli individui, si impone loro ma allo stesso tempo esiste proprio tramite loro. È in effetti la segregazione spaziale al contempo razziale, sociale e di genere, […] che contribuisce alla transizione alla violenza”.2
La violenza come atto, fisico o mentale, verbale o gestuale, simbolico o reale, non è mai giustificata. Tuttavia, come “fatto sociale” è assurdo negarla. Siamo in grado, banalmente in grado, di reagire diversamente, o siamo sopraffatti e trascinati da eventi che finiscono per condurci in una direzione che teoricamente avremmo rifiutato all’inizio, almeno consapevolmente?

régis soavi article violence

La situazione crea le condizioni, le condizioni creano la situazione

“L’inferno sono gli altri” ha scritto Jean-Paul Sartre nella sua opera teatrale A porte chiuse. Forse, ma non dobbiamo dimenticare la « situazione » che ha permesso a questo inferno di esistere. Chi ne è responsabile e persino colpevole, se non il tipo di società che l’ha generata?
Se creiamo le condizioni nei nostri dojo in modo che la situazione non lo consenta, non provochi la violenza nonostante le abitudini, nonostante l’educazione e le cosiddette reazioni istintive, perché le cose dovrebbero accadere in un modo che non sia cordiale? L’Aikido è un caso speciale nelle arti marziali? Certamente no perché una grande maggioranza delle arti marziali si presenta a torto o a ragione come non violenta. Ma giustificare una risposta violenta a uno o più atti violenti non ci porta sulla strada della violenza?
Giudici e giurati dei tribunali si trovano spesso di fronte a casi in cui devono “secondo coscienza” decidere chi aveva ragione a usare la violenza e se era giustificata. La legge fornisce loro un quadro a cui possono fare riferimento ma che non fornisce loro risposte pronte per ogni caso. Spesso, tuttavia, devono distinguere tra la violenza subita e la violenza esercitata. Allo stesso modo, la “legittima difesa” è estremamente inquadrata e può evolvere in funzione di questioni sociali, storiche e politiche.
Negare la violenza che la società esercita sugli individui non è altro che mettere la testa nella sabbia come uno struzzo, o coprirsi gli occhi come bambini che giocano a nascondino. Ma innanzitutto non dobbiamo confondere la lotta e la violenza, e non tutte le risposte alla violenza generano sistematicamente altre risposte violente. Il valore dell’Aikido è nel suo posizionamento che non consiste nel negare la violenza, ma piuttosto rieducare, reindirizzare l’energia distruttiva in un’altra direzione più vantaggiosa per tutti.

Io

Di fronte a tutta questa problematica, sono costretto a parlare di me.
Se ho iniziato a praticare arti marziali quasi sessant’anni fa, e l’Aikido in particolare cinquant’anni fa, è proprio per il suo spirito di giustizia, per la sua bellezza, la sua efficacia non violenta, il suo ideale, allo stesso tempo generoso, pacifico e mite.
Tutto è iniziato quando a dodici anni, senza essere veramente lucido su quello che stavo facendo, ho preso una decisione che ha sconvolto la mia vita: non subire mai più. È successo mentre ero sotto un ragazzo più grande di me che mi sbatteva la testa sul marciapiede dicendomi «Morirai»! Questa presa di coscienza che un altro potesse esercitare una simile violenza su di me non ha innescato un desiderio di vendetta, ma al contrario un disgusto per la violenza insieme a un desiderio di essere forte e un desiderio di giustizia che definirei immediato, istantaneo. Essere forte era la soluzione, ma non solo, c’era anche e nello stesso momento questo rifiuto della violenza come risposta, non solo ai miei problemi personali, ma, dopo averci riflettuto, mi è sembrato che potesse anche estendersi ai problemi del mondo. Un desiderio di giustizia, per me come per tutti gli altri che subiscono, si era appena manifestato, ma soprattutto doveva essere esercitato senza ricorrere alla brutalità o alla barbarie, senza dover giustificare o sollecitare a commettere atti che io rifiutavo d’istinto. All’epoca non sono sempre riuscito a mantenere questa posizione, le tensioni sociali, la giovinezza, mi spingevano spesso – troppo spesso – verso altre direzioni, ma sempre per difendere una causa, o da un’ingiustizia. Tuttavia, il desiderio interiore di uscire dagli schemi violenti che notavo intorno a me è rimasto e l’Aikido che ho incontrato più tardi con Itsuo Tsuda Sensei è stato una rivelazione.
In Aikido c’è prima di tutto Reishiki (l’etichetta) e una preparazione tecnica del corpo che, supportata da una forte determinazione, ci dà l’opportunità di risvegliare i nostri migliori istinti. È attraverso il rifiuto della contaminazione ideologica dei poteri dominanti che possiamo ritrovare la nostra integrità, la nostra interezza. Tutte le teorie che giustificano la violenza cercano di spingerci su un percorso che permette di esercitare un potere e quindi una violenza sugli altri, che un giorno o l’altro ci si rivolta contro qualunque sia il ruolo che abbiamo assunto o creduto di poter assumere.

La Via, calligrafia di Itsuo Tsuda.

Un prerequisito, la normalizzazione del terreno

Quando Tsuda sensei arriva in Francia all’inizio degli anni settanta,3 il suo progetto è quello di propagare il Movimento rigeneratore, (tradotto così dal giapponese Katsugen undo da Tsuda Itsuo) e le sue idee sul “ki”. Essendo stato a stretto contatto con questi due grandi maestri giapponesi che furono Ueshiba Morihei per l’Aikido e Noguchi Haruchika per il Seitai,4 tramite moltissimi stage di introduzione al Movimento rigeneratore, attraverso un insegnamento quotidiano dell’Aikido, così come la pubblicazione di nove libri, guiderà instancabilmente i suoi allievi alla scoperta di ciò che sembra ancora misterioso per molte persone oggi: il Non-Fare, Yuki5, e il Seitai, tra l’altro.
Quest’alleanza di due pratiche (Aikido e Movimento rigeneratore) impossibile da concepire nel Giappone dell’epoca, e a quanto pare persino anche oggi, gli permetterà di far conoscere in Occidente una concezione della vita e dell’attività umana che va ben oltre un modello orientale o passatista.
La visione di Tsuda sensei, visione che era già stata condivisa e approvata da Noguchi sensei, è che l’energia vitale coagulata, qualunque sia la ragione, è una delle origini principali degli errori e delle difficoltà dell’umanità, che la sua normalizzazione è alla fonte della risoluzione della maggior parte dei problemi di salute, come di quelli della violenza. In questo si avvicina al lavoro di ricercatori come lo psicoanalista Wilhelm Reich che fece un enorme lavoro sull’energia vitale che chiamava “Orgone”, Carl Gustav Jung, anch’egli psicoanalista, e la sua ricerca sui simboli e la sua teoria degli archetipi, o l’etnologo Bronislaw Malinovski e i suoi studi sul matriarcato nelle Isole Trobriand. L’Aikido di Tsuda sensei era ben lungi dall’essere un’autodifesa o uno sport, rispettava il lato sacro che O sensei aveva scoperto in questa arte, e ci permetteva di intravederne almeno gli effetti nel suo modo di affrontare la vita, nei suoi scritti, nelle sue calligrafie. Si proibiva invece qualsiasi aspetto religioso o settario e si dichiarava persino ateo e libertario, essendo l’Aikido per lui un percorso per normalizzare il corpo e lo spirito in una visione non separata dall’individuo. Quanto al Movimento Rigeneratore, era anche visto come un lento processo di normalizzazione del terreno.

L’interesse della pratica del Movimento Rigeneratore e della sua alleanza con l’Aikido

Alla domanda «Che cos’è per lei il Movimento rigeneratore?» che il figlio del fondatore, Noguchi Hirochika, mi aveva posto durante la sua visita a Parigi nel 1980, ho avuto questa risposta spontanea: «Il Movimento rigeneratore è il minimo». Avere una base solida e sana, un corpo in grado di reagire per praticare le arti marziali, è qualcosa di assolutamente essenziale. La pratica dell’Aikido può quindi permettere al corpo di funzionare grazie a tecniche che saranno certamente temibili se c’è aggressività da parte di chicchessia, ma che permettono anche di riequilibrare la persona. Al contrario, se si rafforza l’aggressività invece di normalizzarla, è spesso la violenza che si innesca e i danni che ne risultano su entrambi i partner possono essere incommensurabili. Impegnarsi nella pratica dell’Aikido per deformarsi, invecchiare più velocemente o avere incidenti, o anche disabilità a causa di questo mi sembra del tutto assurdo.

regis soavi article violence

L’arte cavalleresca del tiro con l’arco

Se l’arco è stato l’arma di cacciatori e guerrieri per secoli e persino migliaia di anni in tutto il pianeta, il Kyudo che ne è derivato è riuscito a trasformarlo in uno strumento di pacificazione. È interessante notare che è un’arte praticata in egual misura tanto da uomini che da donne. Molte Scuole non fanno competizioni né danno gradi, come accade nella Scuola Itsuo Tsuda. Tutti questi aspetti ne fanno un’arte fondamentalmente non aggressiva nonostante le sue origini. Senza aggressività, ma con obiettivi che favoriscono l’armonia, come Kai, l’unione tra corpo e mente, tra arco, freccia e bersaglio, con una ricerca interiore verso: la verità (真, shin), la virtù (善, zen) e la bellezza (美, bi). Possiamo constatare che con questo spirito siamo molto lontani dal favorire la violenza, al contrario, creiamo le condizioni per lo sviluppo di un’umanità più serena. L’Aikido così come lo concepiva O senseï Ueshiba Morihei mi sembra essere della stessa natura, ed è per questo che continuo ogni giorno a guidare i praticanti in questa direzione. Se non possiamo cambiare “il mondo”, possiamo cambiare “il nostro mondo”. Nei dojo che seguono questo tipo di via verranno allora create le condizioni che, almeno a livello regionale, semineranno i semi di una rivoluzione dei costumi, delle abitudini, dei gesti, dei pensieri, una rivoluzione in cui l’intelligenza del corpo e dello spirito finalmente riuniti sconvolgerà profondamente la società. È attraverso la pratica del Non-Fare nell’Aikido che potremo riuscirci.

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Articolo di Régis Soavi pubblicato in Self e Dragon Speciale n° 2 nel mese di julio del 2020.

Foto:
Jéremy Logeay, Sara Rossetti, Bas van Buuren

Zanshin, lo sprito dell’ordinario

di Manon Soavi

Insegnante di Aikido, ed anche pianista concertista, ho incontrato la nozione di zanshin attraverso diverse esperienze nel mio percorso. Quando ho cominciato lo studio di diversi koryu quindici anni fa (Bushuden Kiraku Ryu, Niten Ichi Ryu, Choku Yushin Ryu, e un po’ di Shinkage Ryu), ho anche approfondito questa nozione nella pratica delle armi, con il maneggiare la spada, il bo, il kusarigama, o anche nella pratica a mani nude con i numerosi kata di jujutsu che queste antiche scuole possiedono.
Benché la mia strada nelle arti marziali sia sicuramente ancora lunga desidero condividere qui qualche riflessione sull’argomento.

Ho notato che una delle contraddizioni umane attuali è la nostra fascinazione per la forza esteriore che va di pari passo al nostro disprezzo per la sensibilità e le sensazioni del nostro corpo che releghiamo al rango di sentimentalismo. Paradossalmente il nostro modo di vivere in Occidente non è mai stato cosi facile, con così pochi sforzi fisici da fare. I nostri avi erano molto probabilmente più resistenti alla marcia, al freddo o anche al dolore, poiché non c’erano così tanti mezzi capaci di farsi carico del più piccolo dei loro malanni, o di supplire al più piccolo dei loro sforzi. Per questo si può dire che mancassero di sensibilità? Non lo credo, perché la capacità di sentire prima di riflettere è sempre stata indispensabile per vivere e zanshin, secondo la mia esperienza, è prima di tutto una questione di sensazione e di presenza nell’istante presente.

Zanshin può essere tradotto con “spirito che permane” ma per le culture orientali il corpo e lo spirito non sono due cose separate. Questo “spirito che permane” corrisponde a una sensazione precisa, ed è essa che ci guida nella sua applicazione qualunque sia la disciplina praticata. Sono delle sensazioni particolari per colui che agisce così come per colui che riceve. Zanshin è una sensazione e allo stesso tempo uno stato che si (ri)scopre.

Storicamente i principi come Zanshin, Mushin, ecc., rimandano meno a delle idee che a delle realtà vissute da generazioni di persone. Ciò riporta a esperienze dirette, reali, che, per essere trasmesse, sono state “concettualizzate”. Si tratta quindi di un atto o di uno stato che possiamo ritrovare, malgrado le nostre differenze d’epoca e di culture. Non sono grandi princìpi scomparsi con i Samurai e la loro epoca, e neanche dei princìpi limitati alle arti marziali. Sono princìpi che irrigano tutta la cultura, in particolare quella giapponese, ma anche e soprattutto quella cinese.

Manon Soavi Zanshin, l'esprit de l'ordinaire

L’immagine come rivelatore

Gli antichi Cinesi insegnavano attraverso delle immagini, delle evocazioni che dovevano far nascere, dovevano rivelare, nel cuore dell’apprendista una sensazione che l’avrebbe guidato verso la comprensione profonda. Una comprensione fisica poiché si trattava di far appello a un’esperienza reale che l’altro potesse condividere. Utilizzavano principalmente la natura come rivelatore di sensazione, dato che l’osservazione della natura era un’esperienza di vita condivisa da tutti all’epoca. Ma si trova questo modo di trasmettere anche nelle arti d’Occidente. Come in musica per esempio, perché al di là di qualche consiglio di base, il gesto del musicista non è trasmissibile ed è impossibile da comprendere intellettualmente.

Cosa fa la differenza tra il principiante che preme un tasto del piano e il maestro che fa suonare la prima nota di una sonata? È obbiettivamente lo stesso tasto e lo stesso meccanismo per colpire la corda. Tuttavia il suono non avrà niente a che vedere. È la sensibilità del maestro che farà la differenza. Così anno dopo anno l’apprendista cercherà come far suonare diversamente il suo strumento, e il maestro cercherà come risvegliare nell’altro la sensazione che ha all’interno di sé. È per questo che alcuni utilizzano delle parole evocatrici, parlano di suonare “a fondo” o d’”impastare” la tastiera, che obbiettivamente non vuol dire niente di niente! Tutte queste immagini fanno appello alle nostre risorse interiori, per ritrascrivere su del legno e delle corde, una sensazione interna e che questa sensazione sia, inoltre, condivisa da chi ascolta. È in questo che tocchiamo con mano la fusione di sensibilità che ci permette di sentire cosa succede nell’altro, è una trasmissione da sensibilità a sensibilità. Come zanshin che sarà riuscito solo se le due persone lo sentono.
Allora al di là di ciò che noi sappiamo oggettivamente su cosa vuol dire “zanshin”, trovo interessante cercare in noi a quali esperienze possiamo collegare questo principio. Come renderlo concreto per noi.

Manon Soavi Zanshin, l'esprit de l'ordinaire

Lo spirito dell’ordinario

Nel corso degli anni in cui ho svolto la professione di musicista sono stata a volte in uno stato che associo a zanshin. Quando suonavo con altri musicisti e cantanti dovevo essere totalmente disponibile nei confronti di ciò che succedeva all’esterno, l’altro musicista, e allo stesso tempo concentrata sui miei gesti per suonare la mia parte di piano. Gli imprevisti del concerto live facevano sì che non potessi contare sul fatto che tutto sarebbe andato come previsto. Non succede mai, per quanto si sia molto preparati, la scena è un’esperienza unica. La preparazione serve a ridurre al massimo l’imprevisto ma non assolutamente ad eliminarlo. Bisogna allora reagire istantaneamente, essere il più possibile con gli altri perché l’armonia continui. Essere allo stesso tempo iper-vigilante, e nel contempo mantenere una concentrazione vaga, perché appena mi fissavo su una sola cosa, perdevo l’insieme. Secondo me questa frase di Musashi riassume perfettamente questo stato:
“Nella vita quotidiana, come in strategia, bisogna avere lo spirito aperto e mantenerlo ben diritto, non troppo teso ma neppure rilassato”(1).

Musashi diceva anche che lo spirito ordinario deve essere quello del combattimento, lo spirito del combattimento deve essere lo spirito dell’ordinario.(2) Tuttavia non si può essere sempre all’erta, quindi lo spirito del combattimento non significa essere “all’erta”, significa qualcos’altro… Si può anche immaginare che questa attitudine sia ben lontano dall’apatia che si riscontra molto spesso oggi. La traduzione di zanshin con “spirito che permane” ci dà forse una pista, più dell’idea un po’ riduttiva di “vigilanza”.

Anche se oggi rari sono coloro tra noi che incontrano il “combattimento reale”, ci confrontiamo tutti con molteplici piccoli “combattimenti ordinari” nelle nostre esistenze. E a volte anche in questi casi si può vedere sorgere “zanshin”. Per me è stato il caso in occasione di esperienze spiacevoli che ho fatto. Mi ricordo la volta in cui, bloccata in un festival di diversi giorni, in un paesino, tutte le ragazze che vi partecipavano si sentivano a disagio e inquiete perché il responsabile dello stage, professore e violinista affermato, metteva le mani su di loro in modo inopportuno. Avevo allora ventun anni e tra i corsi e le prove, le ragazze, tra loro, parlavano di questi momenti molto spiacevoli e li temevano. In occasione di un pranzo tutti insieme, il professore cominciò a risalire la tavolata. Passando dietro ognuna per dare gli orari di prove della giornata. Lo vedevo avvicinarsi, distribuendo carezze nei capelli o sulle spalle, piccole battute equivoche, ecc. e vedevo con costernazione le teste delle ragazze che si abbassavano e aspettavano l’inevitabile al suo passaggio, o ridevano di un riso nervoso. Era per me inconcepibile non fare niente, quindi l’ho guardato arrivare senza sapere cosa avrei fatto, e prima che passasse dietro di me mi sono girata verso di lui e l’ho guardato dritto negli occhi parlandogli del programma. So che in quel momento il mio sguardo diceva “No”. Si è fermato e non mi ha toccato. Per tutto il festival sono rimasta presente, senza apertura. Non mi ha mai toccata.

Ciò non mi successo solo con uno, diversi insegnanti e altri ragazzi ubriachi hanno capito che non potevano avvicinarsi. In caso contrario cosa avrei fatto? Non lo so. In tutte queste piccole situazioni che mi sono capitate ciò che mi ha sempre colpito è che tutto era molto prevedibile e che era alla fine relativamente semplice tenerli in scacco, “bastava” esserci e ascoltare questa sensazione di pericolo che ci tocca prima di qualsiasi evento. Ovviamente le cose sarebbero state diverse in caso di aggressione più grave, è questione diversa, ma incorriamo anche in molte di queste “piccole” aggressioni che, se le si subiscono, incapaci di reagire, ci segnano nel cuore e nel corpo.

Manon Soavi Zanshin, l'esprit de l'ordinaire

Essere influenzati

Lo studio dell’Aikido a partire dalla mia infanzia, come via d’armonizzazione con l’altro mi ha aiutato, ne sono sicura, ad attraversare questi momenti difficili, come mi ha aiutato a lavorare in simbiosi con altri musicisti. Poiché il nostro modo di interagire con gli altri, che sia in negativo o in positivo, è determinato dal nostro atteggiamento interiore. Il fatto di non lottare contro l’influenza dell’altro, che sia musicista o attaccante è determinante. Di comprendere per due.
Chinen Kenyū Sensei l’esprime con queste parole: “La tecnica è uke [ricevere], lo spirito è attacco. […] Quando si padroneggia il principio di uke, non c’è più attacco o difesa. Uke è al di là di questa dualità, e ciò ha un impatto profondo sul nostro essere. […] Quando si è a proprio l’agio nel far fronte a un qualsiasi attacco, si sviluppa una sicurezza che ci permette di accogliere tutto, di affrontare tutto.”(3)

Nella nostra vita molto spesso per difenderci rifiutiamo di essere influenzati dall’altro, ma allora chiudiamo di fatto il solo canale che ci permette di sentire e di agire in funzione di quello che fa l’altro: la nostra sensibilità. È essa che ci permette di sentire l’altro. Non rifiutare l’altro, accettare la sua influenza non vuol dire esservi sottomessi. Assolutamente no. Abolire la differenza tra sé e l’altro e così permettere la fusione, se si muove, io mi muovo, perché noi non facciamo più che uno. Non c’è più azione/risposta. C’è Uno. In fondo è la stessa cosa che sia per sentire ciò di cui ha bisogno un neonato che non può ancora esprimersi, per sentire le cattive intenzioni di una persona o per sentire quando il cantante comincerà.
Tsuda Senseï scrive: «Anche se si comprende e si accetta l’Aikido come la via della comunione con l’Universo, sarà sul piano puramente spirituale. Appena alle prese con delle difficoltà reali, lo spirito cede il passo all’aggressività meschina.»(4)

Pur essendo forse molto lontani dalle capacità di questi maestri, possiamo praticare in questa direzione e ciò può essere utile nelle nostre vite. Per lavorare nello spirito di comunione il primo passo è un lasciare la presa. Se si ha la testa piena di paure, di credenze, se siamo confusi allora non si riesce più a lasciare sorgere dal fondo di noi stessi l’azione giusta, questa azione giusta che i cinesi chiamano Wuwei – Non-Agire. Si cerca la via d’uscita in tutte le direzioni, si cerca di difendersi, si rifiuta l’altro per sfuggirgli ma si sbatte contro il muro. Fukuoka Sensei diceva a proposito della ricerca teorica di una nutrizione corretta: “Se sperate di trovare un mondo luminoso dall’altra parte del tunnel, l’oscurità del tunnel durerà ancora più a lungo. Se non si cerca più di mangiare quello che è piacevole al gusto, si può gustare il vero sapore di tutto ciò che si mangia”(5).

Zanshin, spirito che permane, è anche una percezione fine della realtà che raggiunge il principio di yomi. Pensiamo di vedere la realtà, ma in effetti molto spesso ciò che vediamo è la nostra interpretazione di quello che ci circonda. O troppo ingenui manchiamo di vigilanza, oppure troppo rovinati, traumatizzati, finiamo per essere iper-diffidenti. Diventiamo allora aggressivi. Ma che le punte difensive della nostra armatura personale siano rivolte verso noi stessi o verso gli altri, il risultato saranno la ferita e la sofferenza. E ciò ci impedisce di vivere. Un’arte come l’Aikido, o i koryu antichi, mettendoci in situazione, permettendoci di superare le nostre paure, può aiutarci a riscoprire che non siamo così deboli.

Allora scopriremo un altro modo di adattarsi alla realtà che non vuole più dire essere schiacciati da essa. È qualcosa che si ritrova in altre arti, io trovo qualcosa di zanshin in questa frase di Rikyû, maestro di chanoyu(6) del XVI secolo, che rispose un giorno al suo discepolo:
«Fa una deliziosa tazza di tè; disponi il carbone di legno in modo da scaldare l’acqua; sistema i fiori come se fossero nei campi; in estate, evoca il fresco, in inverno, il caldo; anticipa in ogni cosa il tempo; preparati alla pioggia.»(7)

« Zanshin, l’esprit de l’ordinaire  » un article de Manon Soavi publié dans Dragon Magazine (Spécial Aïkido n°27) en janvier 2020.

Note:

1. Miyamoto Musashi, Il Libro dei Cinque Elementi (traduzione e commento di Kenji Tokitsu), Rotolo dell’acqua, p.23, Oriental Press s.r.l. , 2004.
2. Miyamoto Musashi, Il Libro dei Cinque Elementi (traduzione e commento di Kenji Tokitsu), Rotolo dell’acqua, p.23, Oriental Press s.r.l., 2004.
3. Magazine Yashima numéro 4 mai 2019 Chinen Kenyū, au cœur des traditions d’Okinawa, p.26.
4. Itsuo Tsuda La Scienza del particolare, p.147, Yume Editions 2019.
5. Masanobu Fukuoka La révolution d’un grain de paille, p.150, Trédaniel Éditeur 1978.
6. Chanoyu impropriamente tradotto con cerimonia del tè, letteralmente “Acqua calda del tè”
7. Soshitsu Sen, Vie du Thé, esprit du Thé, p.41, Édition Seuil 2013

 

 

Zanshin, uno stato naturale del corpo

di Régis Soavi

Se traduciamo Zanshin con “mantenere l’attenzione dopo un combattimento o dopo una tecnica”, anche se rimaniamo nella tradizione marziale non raggiungiamo il suo significato profondo.

Tenshin: il cuore del cielo.

Nel termine Zanshin ci sono due kanji: 残 (càn o zan), ciò che resta, che permane, e 心 (Shin o Kokoro). Se il secondo ha un significato conosciuto da tutti gli Aikidoka, mi sembra tuttavia necessario precisarne il valore poiché corrisponde a quello su cui possiamo basarci per trovare la strada della pienezza nella vita. Per Itsuo Tsuda Sensei un’espressione rifletteva e animava le pratiche che proponeva, sia l’Aikido che il Katsugen undo. Quest’espressione, “Tenshin”, egli l’aveva tradotta con «il cuore di cielo puro». Scrive: «la parola kokoro che ho tradotto con “cuore” è etimologicamente identica a quest’ultimo: l’organo centrale dell’apparato circolatorio. Tuttavia, l’accezione è del tutto diversa. Il “cuore” in francese è piuttosto il sentimento, mentre il kokoro in giapponese non è esattamente il sentimento, né lo spirito, né il pensiero. È qualcosa che sentiamo dentro di noi, si avvicina piuttosto al mind in inglese. Se si traduce con mentale o psichico, sarà ancora diverso. La ricerca di un kokoro che resta imperturbabile davanti a un pericolo imminente, che resta calmo in ogni circostanza, è lo scopo principale che si impone a chi cerca di raggiungere la perfezione nel mestiere delle armi»(1) «La vostra mente deve essere sgombra da ogni pensiero, buono o cattivo. Questo stato d’animo è paragonato al Cielo puro – Tenshin».(2)

L’Aikido: reimparare la libertà

Dai nostri primi passi sui Tatami, sorge la concentrazione. È sufficiente il saluto in direzione del Tokonoma perché il nostro corpo reagisca, che lasci questo stato che potremmo definire quotidiano per entrare in quello molto particolare di Zanshin. È fondamentalmente uno stato naturale, uno stato in cui la nostra animalità biologica (nel buon senso del termine) riemerge. Tutta la tradizione che ci viene da O Sensei e che ci è stata trasmessa dal suo allievo diretto Tsuda Sensei è essenziale per comprenderlo. È nella maniera in cui sono eseguiti gli esercizi come la vibrazione dell’anima, i movimenti del rematore, così come tanti altri, che generalmente sono a torto assimilati a un riscaldamento, che ci rendiamo conto della loro importanza. È tutta l’attenzione accordata alla respirazione che ci permette di sentire a livello fisiologico la circolazione del Ki e ci richiama verso questo stato di concentrazione che è Zanshin. Tutta questa prima parte di una seduta ordinaria nella nostra Scuola è stata concepita per condurci, per portarci in un al di là di noi stessi, un al di là di ciò che molto spesso siamo diventati – dei tizi qualunque della nostra società. Se siamo sufficientemente attenti ne sentiamo immediatamente gli effetti. Evolviamo sui Tatami in un modo profondamente differente, quello che sentiamo, la nostra percezione dell’altro, degli altri, diventa al contempo più fine e più accentuata, più larga e più leggera. È giorno dopo giorno immergendosi in quest’ambiente che si può al contempo reimparare la libertà di movimento, un primo passo verso la libertà interiore, e sentire il nostro spazio, i nostri spazi. Ritrovare la sensazione del posizionamento delle forze che ci circondano, scoprire o riscoprire che niente è finito, né concluso, ma che tutto è legato, che Zanshin è un momento di un’eternità che segue il suo corso in tutte le direzioni.

La vita quotidiana: un rivelatore

Senza che ne abbiamo coscienza, senza che agiamo in modo volontario, il nostro corpo reagisce continuamente alle molteplici aggressioni che subiamo tutti i giorni da parte dell’ambiente che ci circonda. Che questi attacchi siano originati da batteri, da virus, o anche più semplicemente che siano dovuti alla qualità della nostra alimentazione, il nostro corpo risponde in maniera adeguata grazie al suo sistema immunitario, al suo sistema digestivo o qualsivoglia altro sistema in funzione del mal funzionamento. La risposta del corpo, se il terreno è buono, se ad esempio il nostro sistema immunitario è ben sveglio, non è limitata a qualche schermaglia qua e là, la mobilitazione del corpo è totale e il combattimento può essere a volte di una grande violenza. Una volta finito il combattimento, il corpo non si mette subito a riposo, non si riaddormenta tanto velocemente non appena il pericolo è passato (cosa che la nostra mente, lei, avrebbe perfettamente ammesso). Il nostro sistema involontario non allenta la propria attenzione, eliminando fino all’ultimo batterio, fino all’ultimo virus, o immobilizzandoli, bloccandoli in modo da renderli inoffensivi. E anche in questo caso non è tutto finito, resta vigile tenendo d’occhio tutto quel che succede, sereno ma attento al minimo movimento degli aggressori, quali che siano. Questo è lo stato di Zanshin naturale e involontario di un corpo che reagisce in modo sano e dunque esattamente all’opposto di un corpo apatico. Quando tutto è veramente finito la vita riprende per così dire il suo corso naturale. È fondamentale favorire il fatto che questo lavoro all’interno del nostro corpo possa compiersi in tutta tranquillità senza spaventarci al minimo dolore o alla minima reazione perturbante. Per chi si avvicina ad un’arte marziale – e l’Aikido in particolare – per la prima volta, gli obiettivi sono spesso molteplici, e vanno dal bisogno di muoversi a quello di difendersi passando per tutte le varianti, reali o fantasmatiche. La scoperta di Zanshin è parte integrante dell’insegnamento dell’Aikido, e la sua comprensione in profondità così come la sua estensione a tutti gli aspetti della nostra vita apportano una maggiore tranquillità di fronte agli eventi imprevisti e permettono di vivere più pienamente nel quotidiano. Perché in definitiva è nel quotidiano che si verifica l’utilità della pratica. Senza essere utilitarista è sempre piacevole vedere e verificare ciò che essa ci apporta nella nostra vita di tutti i giorni. L’attenzione, la concentrazione, come pure il piacere nella realizzazione di un lavoro non possono realmente esserci senza la condizione di presenza che chiamiamo Zanshin, e questo anche se non ne abbiamo coscienza.

Dei cerchi nell’acqua

Quando il bambino lancia un sasso nell’acqua calma di un piccolo stagno, rimane a guardare i cerchi concentrici che si sviluppano e si allargano a partire da quel centro che li ha creati. Se ha conservato la sua natura profonda, se essa non è stata distrutta dagli adulti, genitori, educatori o insegnanti che cercano di spiegargli la ragione scientifica del fenomeno, o che, affrettati per via del loro tempo così prezioso, accordano solo poca importanza a questo piccolo gioco insignificante, allora, immobile, contemplativo ma molto concentrato, aspetta che i cerchi si smorzino, che le loro vivacità iniziali diminuiscano sempre più finendo per non essere più riconoscibili, a fare corpo unico con il movimento naturale dell’acqua increspata, leggermente spinta dal vento. Anche questo momento così prezioso è Zanshin, è un istante che si potrebbe anche vedere come sacro, in cui il kokoro del bambino si calma, in cui ritrova la sua natura primordiale, la sua vera natura.

La scuola, o come rompere questo stato naturale

Tutto l’apprendimento scolastico mira a dare al bambino delle armi per il futuro, l’idea sulla carta è di certo buona ma la realtà è tutt’altra. Il sistema di valutazione, che sia in cifre o sotto forma di lettere all’anglosassone, è fonte di paura, o perfino di angoscia, sempre di inquietudine e produce, di fatto, più disastri che benefici. In questo caso non si lavora per il piacere di scoprire, e nemmeno per un risultato concreto, ma per un voto, per un apprezzamento che dovrebbero rappresentare il nostro livello nel sistema. Tuttavia non si contano più i pedagoghi che da più di un secolo hanno denunciato i misfatti di questo tipo di scolarizzazione e di questo modo di educazione. Tutto al contrario della condizione di Zanshin si attende il verdetto, il risultato dell’interrogazione scritta, del compito, dell’esame. Invece di sviluppare le capacità fisiche o intellettuali del bambino, si fa di lui un essere impaurito o più tardi un ribelle che aspira solo a uscire dal sistema nel quale si trova incastrato, per respirare anche solo un po’ più liberamente. Il danno tuttavia non è irrimediabile, è anche a questo che serve la nostra pratica, rimettere in piedi ciò che non avrebbe mai dovuto essere abbandonato né distrutto.

Prima finisci la scuola!

Chi non ha mai sentito questa frase, divenuta un leitmotiv genitoriale? Quali sono i genitori che hanno lasciato i loro figli andare nella direzione che avevano deciso da soli di prendere, sostenendoli malgrado la disapprovazione generale della famiglia e dell’entourage? In Francia la nuova legge sull’insegnamento (obbligo dell’istruzione dai tre ai diciott’anni) costringe i genitori, che a volte, perché un giorno hanno preso coscienza dei disastri che hanno subito durante la propria infanzia, hanno scelto l’insegnamento a domicilio, a rimanere malgrado tutto nel quadro dell’educazione nazionale. A far subire esami e test che i bambini devono superare pena il reinserimento in una scuola riconosciuta dallo Stato. Come permettere al bambino, all’adolescente, di scoprire, di riscoprire o di conservare quello che ha sempre avuto e che non avrebbe mai dovuto perdere: Zanshin, questo stato di concentrazione che perdura al di là dell’atto, questo stato istintivo che ci procura il piacere, la soddisfazione, e rafforza le nostre capacità permettendo loro di approfittare dell’esperienza acquisita in questo momento grazie a questo piccolo momento di pausa in cui qualcosa resta in sospeso? Il bambino, maschio o femmina, durante questo tempo incerto in cui tutto è possibile, sfugge al mondo delle convenzioni sociali, diventa forte, di questa forza che nessuno potrà sottrargli, si apre a una intelligenza che appartiene solo a lui e che non è opera di alcuna dottrina, di alcuna ideologia.

Ai-uchi, ai-nuke

A partire da Zanshin un mondo può ricostruirsi se non è stato distrutto o semplicemente rovinato. Nella pratica dello Zen è lo spirito di Zanshin che permane o lo spirito con cui si compie qualsiasi gesto che permette di ritrovare ciò che è stato perduto, nell’Aikido non è lo spirito combattivo che ci permette di vivere in armonia, bensì quello che c’è dietro, in profondità e che anima la nostra azione. Itsuo Tsuda Sensei ci racconta la storia di questo grande maestro del XVII secolo Sekiun Harigaya che aveva trovato la pace interiore. «Dopo esser stato a lungo tormentato dall’incertezza che regna quando ci si trova in una situazione estrema, in cui nessun ricorso a un precedente serve a giustificarci, trovò: “Vincere i più deboli, farsi battere dai più forti, e annientarsi a vicenda fra eguali, sono soluzioni senza uscita.” Anche se si ottiene la vittoria colpo su colpo, secondo lui non è altro che una bestialità. Non sono altro che combattimenti fra lupi o tigri. Si rimarrà sempre nella relatività, nell’opposizione. Bisogna uscirne per trovare la vera via. Come uscire dalla bestialità per trovare la vera via? Soprattutto in una situazione in cui il risultato non si misura con dei punteggi. La formula consacrata fino ad allora è stata “ai-uchi”, annientamento reciproco. A voler battere l’altro, cercando al contempo di conservare la propria integrità, si perde tutto, poiché all’ultimo momento si è vinti dalla paura che ci paralizza. Per uscire da questa dualità che ci tormenta, si decide di morire, abbandonando tutto ciò che abbiamo. “Quando avrai la mia pelle, avrò la tua carne. Quando avrai la mia carne, avrò le tue ossa”, questo è il motto degli spacconi. Si resta comunque nella bestialità. Dopo lunghi anni di meditazione, Sekiun trova la sua formula ai-nuke, passare al di là reciprocamente. La base di questa formula è la scoperta del kokoro, immutabile, eterno, nel quale non c’è l’annientamento dell’avversario, ma soltanto il rispetto dell’altro. Questo ai-nuke indica una posizione abbastanza vicina a quella dell’Aikido del M° Ueshiba. Se si affronta l’altro senza alcuna aggressività, è ai-nuke, ma se si mantiene la minima aggressività, è ai-uchi. Ma come si può svuotarsi da ogni aggressività quando ci si trova per l’appunto in una situazione di aggressività in cui si rischia di perdere tutto? Questa non-aggressività, se viene, non da un moralista o da un pacifista religioso, ma da qualcuno che ha conosciuto 52 combattimenti reali fino all’età di 50 anni, può avere un valore del tutto diverso.»(3) Zanshin è al centro del problema, perché si tratta di una presenza a se stessi come pure all’altro, senza aggressività, senza attese, senza ricerca di un qualsivoglia risultato. Zanshin non è né la fine né l’inizio di un movimento, non rappresenta il potere di uno dei due su un avversario, è un tempo, uno spazio-tempo non definito, ma che si realizza concretamente. Ritrovare il Kokoro dell’infanzia, ritrovare la concentrazione, la gioia semplice di sentirsi pienamente vivi, non accontentarsi più dell’aspetto superficiale della sopravvivenza che ci viene imposta dalla società, è la strada che ci viene proposta nell’Aikido. Anche se questa strada esige da noi rigore e determinazione, continuità e introspezione, io l’ho sempre sentita e vissuta come più facile dell’abdicazione, della rinuncia e dunque della disillusione o della passività.

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Articolo di Régis Soavi pubblicato in Dragon Magazine (speciale Aikido n° 27) nel mese di gennaio del 2020.

1) Tsuda Itsuo, La voie des dieux, Le courrier du livre, 1982, p 61.
2) Tsuda Itsuo, Cœur de ciel pur,Le courrier du livre 2014, p 91.
3) Tsuda Itsuo, La voie des dieux, Le courrier du livre, 1982, p 63.
Foto: Bas Van Buuren, Sara Rossetti

Senpai-kohai : la hiérarchie de l’ombre

L’École Itsuo Tsuda est une école sans grade, où l’on peut redécouvrir la liberté de s’exprimer, d’intervenir, de réagir entre personnes, sans besoin d’en référer à nos « niveaux » respectifs pour déterminer qui a droit de parole sur qui. Néanmoins notre école n’est pas dépourvue d’une forme de hiérarchie – implicite, mouvante, vivante –, qu’il appartient à chacun de sentir et d’apprécier. Une recherche faisant partie intégrante de notre pratique. Dans un article publié en novembre 2019 sur son blog, Ellis Amdur, pratiquant et chercheur reconnu en arts martiaux japonais traditionnels1, nous conte au travers de la relation senpai2kōhai3 dans les koryū4 une histoire de cette hiérarchie de l’ombre.

Nous remercions Ellis Amdur de nous avoir permis de partager et de traduire cet article. [Traduction de Marc S.]

Il y a plusieurs dizaines d’années, mes amis Phil & Nobuko Relnick, haut gradés de la Shintō Musō-ryū5 et de la Tenshin Shōden Katori Shintō-ryū6, étaient en voyage au Portugal. Ils rendirent visite à une école de jogo do pau7. Voulant témoigner du respect qui était dû à l’école à laquelle ils rendaient visite, Phil et Nobuko demandèrent comme il se doit à la japonaise : « Qui est votre instructeur ? ». Perplexes, les plus anciens se consultèrent entre eux avant de désigner quelqu’un du doigt et de dire : « Sans doute lui. C’est le plus vieux. ».

Les arts martiaux implantés dans une localité, fût-elle un village, une bande de chasseurs-cueilleurs ou un faction dans une ville, n’avaient souvent pas de grades, dans le sens où nous l’imaginons. À la place, les gens les plus compétents (quel que soit leur âge) étaient chéris et respectés pour leur utilité tandis que les anciens étaient respectés pour leur connaissance, leur histoire et leur autorité en tant qu’anciens. C’était certainement le cas au Japon. Pendant des milliers d’années, les villages et les chasseurs-cueilleurs se sont protégés, s’organisant autour de systèmes hiérarchiques qui préservaient intact le reste de leur société. Les compétences et le courage conféraient les éloges, tandis que les années et l’expérience conféraient l’autorité. Même après que le gouvernement central de Yamato s’unifia en mettant sur un pied une force armée de conscription, il y avait dans les régions frontalières des bandes de guerriers qui finirent par devenir les bushi. Ils avaient des chefs, pour sûr, mais au sein de leurs bandes, l’ancienneté (que ce soit l’âge ou le moment d’arrivée dans le groupe) avait un poids considérable. Ceci s’applique encore de nos jours aux arts martiaux japonais. Les senpai ont de l’autorité simplement parce qu’ils étaient là les premiers.

Il me serait facile de m’étaler en longueur sur les problèmes pouvant émerger d’un tel système : les abus dans les lycées japonais ainsi que dans les clubs et fraternités à l’université sont légions, et le niveau terrifiant d’atrocités commises par les Japonais durant la Seconde Guerre mondiale, où certaines régions de la Chine furent transformées en des camps d’Auschwitz à ciel ouvert, fut en grande partie alimenté par l’impossibilité, l’inconcevabilité de braver les exigences de ses supérieurs. Mais remettons ces discussions à plus tard. Il est aisé de se concentrer sur le pire, particulièrement quand on parle de culture martiale où la violence est concernée en tout premier lieu. Or on peut trouver au sein de la même culture martiale certains des meilleurs aspects de l’humanité, ces derniers émergeant aussi – pour une part – d’un système hiérarchique naturel fonctionnant à l’ancienneté.

Abordons plus spécifiquement le rôle de l’ancienneté au sein du koryū bujustu8. On peut être plus ancien à deux abords : le plus évident est d’être le premier à avoir rejoint le ryūha9 ; le second est d’être le premier à avoir rejoint un certain dōjō, car les dōjōs, dirigés par divers shihan10, peuvent avoir des cultures et des hiérarchies différentes au sein desquelles un invité provenant d’un autre dōjō – un  »semi-étranger » – doit trouver sa place. Un parfait exemple de cette complexité est fourni par l’un de mes anciens élèves, G. M., qui a commencé à pratiquer la Toda-ha Bukō-ryū11 au Dojo Hokusei d’Athènes. Il partit au Japon, et quand cela s’avéra être pour du long terme, il rejoignit officiellement le Dojo Nakano de Kent Sorensen Sensei, sōke-dairi12 de l’école, devenant ainsi son élève. En termes d’années de pratique dans la Toda-ha Bukō-ryū, je dirais qu’il était quelque part entre les membres moyens et confirmés du Dojo Nakano, mais d’un autre côté il était le plus récent au moment de son arrivée. Il a dû donc trouver sa juste place.

La situation est d’autant plus complexe qu’interviennent aussi les diplômes reçus : shoden, chūden, okuden, ou mokuroku, menkyō, inka, pour rappeler deux « séries » de grades. Comment alors « calibrer » son ancienneté au vu de ces différentes facettes qui se recoupent et entrent légèrement en conflit les unes avec les autres ? À l’aide de Kan (勘), l’« intuition », qui se fonde sur un savoir culturel, en observant la façon dont la personne à la tête du dōjō traite chaque individu et comment la personne concernée s’intègre dans la culture du dōjō. Et, si cela ne fonctionne pas, les plus ancien (et, rarement, le shihan) aident le nouveau venu à « re-calibrer » afin de s’intégrer convenablement.

Une question pourrait se poser : l’école ne devrait-elle avoir un livre de règles, un manuel pour savoir comment se comporter, qui serait remis à l’étudiant lors de son arrivée ? Eh bien, cela peut arriver, mais seules les grandes lignes sont alors esquissées. Dans beaucoup d’écoles, on fait un kishōmon (serment par le sang) qui donne accès à quelques conditions générales pour pouvoir entrer. (Voir le livre Old School13 pour une analyse au peigne fin de tels serments.) Le kishōmon ne donne toutefois que quelques conditions, tandis que nous sommes en train de parler d’un vaste complexe de valeurs et de comportements, somme totale de la culture martiale archaïque japonaise. Notez cette expression : « culture martiale ». Pour véritablement survivre lors de rencontres à haut risque, il faut développer et raffiner à l’extrême une sensibilité aux autres, à nos alliés comme à nos ennemis. Développer son intuition kan est essentiel. Mais comment développer notre capacité à sentir le niveau de confiance de nos proches, ou encore l’intention d’un de nos adversaires, si ce n’est en l’incorporant dans notre pratique ? Être sur le qui-vive, craindre d’offenser gravement son enseignant ou les anciens de son dōjō, tout cela requiert que l’on développe une sensibilité aigüe au moment présent. Paradoxalement, les élèves qui y parviennent apprennent à se détendre tout en étant sur le qui-vive, quelque chose auquel je me réfère ailleurs comme « l’étiquette de la meute ». Un ensemble de règles, apprises par cœur, tout d’abord seront appliquées de manière artificielle, et d’autre part priveront l’élève de l’opportunité de développer ce qui compte vraiment – reigi (attitude convenable) est en fin de compte la voie royale vers kan.

Quelles sont, pour rentrer plus en détail, les responsabilités des anciens (senpai) ? D’un point de vue général, l’ancien est responsable du maintien de la culture de l’école, et se prononce au nom de ce qu’il croit être les souhaits de l’enseignant. Une façon simple d’envisager le rôle de l’ancien est de penser à une sœur ou un frère aîné. Même si le petit frère a bien mieux réussi dans la vie, dans son travail, etc., les paroles du grand frère compteront toujours.

Donnons quelques exemples :

  • Un élève plus récent a une mauvaise hygiène – son keikogi sent mauvais, son haleine est horrible, ou bien les vêtements qu’il porte pour pratiquer sont sales ou mis n’importe comment. Le shihan de l’école ne devrait JAMAIS être mis dans l’obligation de dire à l’élève de se nettoyer. Les anciens du dōjō parlent à cette personne, lui disent de s’occuper du problème – avec tact et politesse. Si elle continue, ils deviennent fermes. Enfin, si le problème venait à perdurer, il est concevable qu’ils lui disent de ne pas revenir avant d’avoir réglé le problème.
  • Une personne commence à rentrer dans des discussions ou bien à apprendre aux autres, devant l’instructeur, sans être autorisée par l’enseignant à tenir ce rôle. Même en étant moins gradé que la personne bavarde, un ancien peut et devrait se plaindre auprès de l’autre, rappelant qu’il vient au dōjō pour étudier auprès du shihan et lui disant « Comme tu causes, là, tu nous prives de l’enseignement de Sensei en prenant toute la place.  ».
  • Un jeune élève plein de vitalité pratique trop vigoureusement – voire dangereusement – avec d’autres élèves. Il est de la responsabilité des anciens de l’informer qu’il doit se calmer et prendre la mesure de son comportement. Idéalement, l’ancien peut si besoin contrôler physiquement la personne vigoureuse mais, même si cela n’est pas possible, l’ancien doit quand même intervenir pour remettre les choses dans l’ordre. Et uniquement en cas d’échec de la part d’un ou plusieurs anciens pourrait-on alors faire appel au shihan.

Quelles sont les responsabilités de l’élève moins avancé (kōhai) ? En tant que « petit frère », sa responsabilité est d’écouter ses grands frères & sœurs pour avoir des repères quant à la culture du dōjō et à l’attitude convenable à avoir, aussi bien pendant la pratique que dans les interactions sociales hors du dōjō. Une objection pourrait pourtant être levée, vu ma brève allusion plus haut aux abus potentiels du système senpai-kōhai. A-t-on encore besoin de ce système ? Absolument. C’est à travers lui qu’a été préservé le koryū bujustsu au fil des générations. Sans lui, nous aurions changé d’une façon qui menacerait le futur d’une tradition martiale telle qu’une authentique koryū.

Toutefois, il n’est pas inconcevable qu’un tel système se corrompe. Nous, les Japonais comme les non-Japonais, sommes aussi des êtres humains autonomes du 21e siècle et ne devrions jamais accepter quoi que ce soit d’abusif ou d’immoral au prétexte de suivre ce système archaïque. Si cela devrait arriver, il incombe au kōhai (ou senpai) de faire face et protester, idéalement en le faisant d’abord auprès de ses ancien.nes proches : et de le faire avec force et dignité. En espérant qu’une telle objection change quelque chose qui était toxique dans la culture du dōjō. Seulement en cas d’échec le shihan devrait-il rentrer en jeu (voire, dans certains cas, être informé du problème – idéalement le shihan n’aurait peut-être même pas entendu parler de l’incident). Si vous échouez à ce niveau, vous voici à un carrefour : peut-être resterez-vous, en acceptant la situation (et parfois vous rendrez-vous compte que ce que vous trouviez répréhensible il y fut un temps est quelque chose que vous voyez différemment au fil des années) ; peut-être ne le supporterez-vous pas et devrez-vous partir (ou être renvoyé). Soit. Dans un cas aussi extrême et hypothétique, vous perdriez certes votre appartenance à un groupe, mais conserveriez votre intégrité. Cela dit, ce scénario catastrophe décrit la pire des situations et n’a quasiment jamais lieu dans quelque école que ce soit.

Si l’on veut bien laisser de côté ce cas extrême et revenir à ce que nous vivons au quotidien, un ryūha est comme une famille : nos aînés nous guident du mieux qu’ils peuvent tandis que nos cadets se donnent à fond pour nous dépasser, tout en nous témoignant du respect.

Ellis Amdur

Notes :

1. Ses travaux écrits peuvent être consultés sur la page https://edgeworkbooks.com
2. Litt. avantcompagnon : aîné (comme dans sensei, litt. avant-naître : maître)
3. Litt. après-compagnon : cadet
4. Litt. ancienne-tradition : école ancienne traditionnelle
5. Une koryū de jōdō (voie du ) dont une des branches actuelles est dirigée par Pascal Krieger Sensei
6. Une des plus anciennes koryūs japonaises (remontant au XVe siècle) dont le shihan actuel est Risuke Otake Sensei
7. Litt. jeu de bâton : art martial portugais se pratiquant avec un bâton
8. Tradition martiale des koryū
9. Synonyme de ryū
10. Pratiquant enseignant modèle
11. Une koryū remontant au XVIe siècle dont Ellis Amdur, feu Pierre Simon et Claire Seika sont shihan
12. Instructeur principal remplaçant
13. Ellis Amdur, Old School: Essays on Japanese Martial Traditions, fév. 2015

La forza vitale

di Régis Soavi

Perché parlare della forza vitale quando l’argomento sembra démodé? Oggi è generalmente considerato come una sorta di residuo ideologico degli anni Sessanta.
Oppure resta apparentemente appannaggio privilegiato di un esiguo numero di persone alla ricerca di effetti misteriosi?

Se la forza fisica resta per molte ragioni e in molti casi un tema importante, non è uno stato permanente e inalterabile. Esistono numerosi fattori che dobbiamo prendere in considerazione: l’età dell’individuo, il suo stato di salute, il suo mentale, la sua situazione sociale, la sua concezione del mondo, ecc. La stessa cosa vale per la cosiddetta forza mentale o, più comunemente parlando, la forza di carattere.

Lo spettacolare

Avere un corpo da dio o da dea ha sempre fatto sognare la gioventù, è chiaro che lo stato del corpo dovrebbe essere riflesso dalla sua apparenza. La silhouette di una persona era uno dei mezzi per giudicare lo stato di salute, la sua forza, la sua potenza. Le statue dell’antica Grecia o dell’antica Roma servivano da esempio. L’accento era posto sull’estetica delle forme e delle proporzioni. Accade lo stesso oggi, ma i modelli sono cambiati perché appartengono soprattutto agli ambienti trendy della “people society”: attori, sportivi di alto livello, modelli, ecc. Le immagini che ci vengono proposte, anche quando non vengono ritoccate, ci fanno apparire un mondo completamente irreale di giovani persone innocenti, sprizzanti salute, saltellanti e in grado di realizzare degli “exploits” con la massima facilità. «Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione.» (1) In questo mondo di false apparenze come non passare per un guastafeste quando si tenta di presentare valori diversi da quelli che sono messi in scena dalla pubblicità al servizio dell’Economia e della volontà di potenza di qualcuno, a scapito della maggioranza degli individui?

Tsuda Itsuo montrant les points du ventre pendant une conférence.
Itsuo Tsuda mostra i punti del ventre durante una conferenza

Un problema di società

La società del 2019 non è la società del ventesimo secolo e ancora meno quella del diciannovesimo. A quell’epoca la forza fisica aveva qualcosa di naturale, oserei dire di primitivo, oggi non è più così. Se, per esempio, in Occidente, i progressi della medicina hanno potuto salvare delle persone e permettere un allungamento della durata di vita, d’altro canto hanno ridotto molta gente ad essere dipendente da trattamenti e medicinali, creando in tal modo una società di assistiti la cui forza vitale sembra essersi gravemente indebolita. I laboratori farmaceutici non si fanno scrupoli a produrre a profusione sempre più sostanze, nuove molecole, che dovrebbero rendere la vita più facile. Uno degli esempi che ha fatto scandalo recentemente è quello dei drogati su prescrizione medica. Gli antidolorifici a base di oppiacei, per via dell’assuefazione che generano, hanno già fatto non solo due milioni di persone dipendenti da queste sostanze, ma anche centinaia di migliaia di drogati che non sanno più come procurarsi la propria dose e persino, drammaticamente, più di quarantottomila morti negli Stati Uniti nel 2017. (2) La medicina dello sport in alcuni paesi, e questo ormai da decenni, non esita a drogare gli atleti per permettere al loro paese di vincere una medaglia. In ambito sportivo i record sono costantemente superati, ovunque la competizione infuria, ma sembra difficile vincere e anche solo essere selezionati senza avere degli specialisti del corpo e della medicina all’interno del proprio staff tecnico.
La sola forza fisica naturale non basta più, ci vuole più di questo oggi, molto di più. Si propongono integratori alimentari, cocktail di sostanze sempre più sofisticati per superare i limiti umani naturali, ma anche semplicemente per essere sempre in forma o quantomeno per apparire tali, e quando le conseguenze dei trattamenti, o piuttosto dei cattivi trattamenti del corpo, sopraggiungono, è già troppo tardi per tornare indietro.

L’ecologia umana

Il fatto che una parte della nuova generazione abbia preso coscienza dello stato del pianeta potrebbe essere il punto di partenza di una presa di coscienza più globale. L’assoluta necessità di rivedere non soltanto la produzione di prodotti di consumo, ma anche gli schemi di questa stessa produzione, se spinta un po’ più lontano dovrebbe portare la società alla comprensione di questo bisogno imperativo di cambiare orientamento.
Se la tecnologia ha dei lati pratici, dobbiamo forse rinunciare a pensare da soli per seguire le tracce prestampate dei software, degli algoritmi, o dei motori di ricerca? La medicina occidentale, che è un’arte e non una scienza, ha fatto dei grossi progressi dal punto di vista della comprensione e del trattamento di certe malattie umane, ma dovremmo per questo abbandonare il nostro libero arbitrio e rimetterci nelle sue mani senza cercare di comprendere o di sentire ciò che più ci corrisponde? La società ci ingozza di raccomandazioni che, se non ci fanno più ridere, spesso ci lasciano indifferenti: «Mangiate muovetevi» «Mangiate cinque frutti e verdure al giorno» «Attenzione al tasso di colesterolo, mangiate prodotti light» «Rispettate scrupolosamente il numero di ore di sonno» ecc. L’essere umano moderno finisce per seguire le direttive di persone che pensano per lui in materia di salute, di lavoro, di incontri; tutto è preparato, pre-digerito, in nome del nostro benessere, per realizzare ciò che scrittori come Evgenij Zamjatin, già nel 1920, Aldous Huxley nel 1932, o George Orwell nel 1949, avevano descritto nei loro romanzi di fantascienza sociologica, cioè “un mondo ideale”. Stiamo già vivendo in quel mondo che Huxley predisse in una conferenza nel 1961?
«Ci sarà, in una delle prossime generazioni, un metodo farmacologico per far amare alle persone la loro condizione di servi e quindi produrre dittature, come dire, senza lacrime; una sorta di campo di concentramento indolore per intere società in cui le persone saranno private di fatto delle loro libertà, ma ne saranno piuttosto felici ». (3) Lungi da me l’idea di perpetrare ideologie reazionarie o passatiste, che hanno la tendenza di risolvere le questioni a colpi di “basterebbe…” o di propugnare la rinascita di valori patriarcali o razzisti, che fortunatamente sono, o, oso sperare, dovrebbero essere superati. I passi da fare sono di tutt’altra dimensione. Non si tratta d’altro che di trovare dei valori umani ed è forse questa la vera rivoluzione. L’Aikido è portatore di questa speranza, ma non dobbiamo sbagliarci di direzione.

Respiration KA MI : activation de la force vitale
Respirazione Ka Mi: attivazione della forza vitale

La forza vitale

Espressioni popolari come “avoir du cœur au ventre” (4) o “avoir des tripes” (5) esprimono bene l’importanza che la maggioranza delle persone di non molto tempo fa accordavano a questa regione del corpo, il coraggio non si trova nella riflessione ma nell’azione della parte bassa del corpo.
La forza vitale era un argomento ben noto ai maestri di arti marziali, e questi accordavano la più grande attenzione al farne uno dei temi più importanti, se non proprio il centro, dei loro insegnamenti. Tutti coloro che hanno avuto la fortuna di conoscere i maestri della prima generazione dopo O Sensei sanno che il valore di Noquet Sensei, Tamura Sensei, Yamaguchi Sensei o Noro Sensei, e molti altri ancora, non risiedeva nella qualità, evidentemente irreprensibile, delle loro tecniche, ma nella loro presenza, semplice riflesso della loro personalità, della loro forza vitale.
Anche Itsuo Tsuda Sensei, maestro di Aikido, faceva parte di questa generazione, ma egli è stato anche uno dei maestri della prima generazione dopo Noguchi Haruchika Sensei, nell’arte del Seitai, e ha scritto molto su questo soggetto fin dal suo primo libro Il Non Fare da cui ho tratto qualche estratto.
«Dal punto di vista del Seitai il ventre non è semplicemente un contenitore di diversi organi digestivi, come insegna l’anatomia. Il ventre, già conosciuto in Europa con il nome giapponese di “hara”, è la sorgente e il deposito della forza vitale.» (6)
«La vita agisce come una forza che dà coesione agli elementi assorbiti. […] È questa forza di coesione che noi chiamiamo “ki”. […] Ciò che interessa il Seitai, non sono i dettagli della struttura anatomica, ma il comportamento di ciascun individuo che rivela lo stato di questa forza di coesione. Questa coesione, nella fattispecie, è alla ricerca spontanea di un equilibrio e si manifesta in due modi diametralmente opposti: in eccesso o in deficit. Quando il ki, forza di coesione o energia vitale, è in eccesso, l’organismo rigetta automaticamente tale eccesso per poter ristabilire l’equilibrio. Ciò che disorienta l’osservatore è che il rigetto, lungi dall’essere semplice, si effettua sotto forme diverse e complesse. Nell’individuo, esso si manifesta nel comportamento verbale, nel suo gesto o nel suo atto. Invece, quando il ki è in deficit, l’organismo reagisce per colmare questa insufficienza, attirando verso di sé il ki degli altri, cioè, la loro attenzione.» (7)
Nel Seitai esiste un mezzo per rendersi conto dello stato del koshi e della forza vitale, semplicemente verificando l’elasticità del terzo punto del ventre che si trova approssimativamente due dita al di sotto dell’ombelico. Se il punto è positivo, ovvero se si sente che rimbalza quando ci si preme sopra, allora tutto va bene, ci si rimetterà rapidamente in caso di difficoltà o di malattia, se invece le dita affondano e ritornano solo con lentezza, se il ventre è molle, allora lo stato del corpo è in difficoltà, questa mancanza di tono è rivelatrice dello stato della forza vitale. Preferisco astenermi dal fornire maggiori dettagli al fine di evitare che degli appassionati del fai da te presuntuosi o mal informati comincino a toccare dappertutto. In ogni caso potete provare su voi stessi, ma mai sugli altri, anche se sono d’accordo, il rischio di perturbare il loro ritmo biologico e quindi di conseguenza la loro salute è troppo grande, inutile giocare all’apprendista stregone.
La forza vitale è quella che ci fa risalire la china quando tutto sembra perduto. È quella che ci permette di concretizzare progetti che a volte sembrano impossibili da realizzare.

Représentation du hara ; Basilique Saint-Sernin à Toulouse
Rappresentazione dell’hara, Basilica Saint-Sernin a Tolosa

La tecnica Seitai: un orientamento

Il Seitai ci offre, nel quotidiano, gli strumenti che ci mancano per mantenere la nostra forza vitale. La pratica del Katsugen Undo (Movimento rigeneratore) così come i Taiso, diversi in funzione dei Taiheki (abitudini corporee), o le tecniche di primo soccorso non sono che la parte visibile, l’essenziale si trova nella sua filosofia di vita e nella sua comprensione dell’essere umano. Tutta l’attenzione volta all’educazione dei giovani genitori, la cura del bambino, il modo di far circolare il Ki, di rispettare ogni persona nella sua individualità, e non facendo riferimento al generale, ne fanno una scienza del particolare, come amava definirla Itsuo Tsuda Sensei nel suo libro dallo stesso titolo. (8)
Se, in occasione degli stage, fornisco indicazioni pratiche che permettono alle persone di ritrovare un buono stato di salute, di recuperare la propria forza vitale quando essa è indebolita, è perché conto sempre sulla capacità degli individui di reagire, di comprendere la necessità di orientarsi diversamente rispetto a ciò, piuttosto che dimettersi dal proprio potere a favore di una tecnica, di un idolo o di un guru.
Senza la forza vitale, la forza fisica ha difficoltà a trovare sbocchi, gira in tondo e finisce per perturbare la persona stessa che non sa più come fare per ritrovare il proprio equilibrio.
La forza vitale non ha morale, può essere usata in modo opportuno o no, certo, ma se questa non c’è più, è inutile discutere sul valore degli obiettivi da raggiungere o sulle prospettive che ci propone la società.
Ci si pongono molte domande sulla sua natura, sulla sua origine, e anche sul suo assoggettamento. Ad alcuni piacerebbe poterla misurare con l’ausilio di materiale tecnologico altamente sviluppato, come ad esempio degli elettrodi sofisticati capaci di registrare le risposte sottili emesse dal cervello. Malauguratamente, o piuttosto fortunatamente, perché i rischi di manipolazione sono grandi, questo al momento sembra impossibile. La forza vitale è di tutt’altra natura, lo si comprende quando si ritrova la sensazione del ki nel proprio corpo. Ma che cos’è il ki? Tsuda Sensei ci indica con poche parole una pista per riscoprirlo.
«Il ki è il motore di tutte le manifestazioni istintive e intuitive degli esseri viventi. Gli animali non cercano di giustificare la propria azione ma riescono a mantenere un equilibrio biologico nella natura. Nell’uomo lo sviluppo straordinario dell’intelligenza minaccia di distruggere ogni equilibrio biologico, arrivando fino alla distruzione totale di ogni essere vivente.»(9)

L’Aikido: un’arte per risvegliare la forza vitale

L’Aikido è spesso al centro di numerose polemiche, a causa del suo rifiuto della competizione, del suo ideale di non-violenza, della sua mancanza di modernità e persino della sua pretesa inefficacia. Mi sembra che sia tempo di affermare i valori della nostra arte – e sono numerosi. Nella pratica dell’Aikido non è la forza fisica ad essere determinante, ma piuttosto la capacità di utilizzarla, come per la tecnica è la capacità di adattarla alle situazioni concrete ad essere importante e questo non si può fare senza aver risvegliato la nostra forza vitale. La messa in situazione sui tatami giorno dopo giorno, seduta dopo seduta, se la si fa senza concessioni e allo stesso tempo senza brutalità, ci apre gli occhi e ci permette di sviluppare, di ritrovare ciò che anima l’essere umano, una forza, una vitalità che si è lasciata troppo spesso atrofizzare. La potenza che si può sviluppare, ma anche la tranquillità, la quiete interiore che si può ritrovare, ne sono la manifestazione visibile, il riflesso di quello che si chiama Kokoro in Giappone.
È inutile fare il paragone con altre pratiche, perché, anche se l’Aikido, quali che siano le critiche che gli vengono fatte, non dovesse servire ad altro che a permettere solamente il risveglio, il mantenimento o il miglioramento della forza vitale, non avrebbe forse portato a compimento il suo dovere nei confronti dei praticanti? Non lo si potrebbe considerare come una delle arti marziali maggiori?
La forza vitale è al centro di tutte le discipline e lo è dall’origine dei tempi, se tutte le arti marziali evolvono, essa resta l’elemento indispensabile alla loro pratica.

Régis Soavi

Note:
1) Guy Debord, La Società dello Spettacolo, trad. it. Paolo Salvadori, Baldini&Castoldi 2017 p.63.
2) “Médicaments antidouleurs: overdose sur ordonnance”, Le Monde, éditorial publié le 16 ottobre 2018 à 10h24.
3) Aldous Huxley, discorso tenuto nel 1961 alla California Medical School di San Francisco.
4) “Avoir du cœur au ventre”: lett. avere del cuore nel ventre, quindi avere forza e coraggio.
5) “Avoir des tripes”: lett. avere delle trippe, quindi avere fegato, essere forte e coraggioso.
6) Itsuo Tsuda, Il Non-Fare, Yume Ed. 2014 p. 193.
7) Itsuo Tsuda, Il Non-Fare, Yume Ed. 2014 p. 203-204.
8) Itsuo Tsuda, La scienza del particolare, Yume Ed. 2019.
9) Itsuo Tsuda, Le Dialogue du silence, Le Courrier du Livre 1979 p. 87.

La distensione

di Régis Soavi

Per la maggioranza degli occidentali praticare l’Aikido in ginocchio piuttosto che in piedi sembra, a priori, una grande difficoltà. Sebbene nella vita quotidiana si stia molto raramente in questa posizione, essa è utilizzata dall’origine dei tempi come una posizione di rilassamento che permette, malgrado tutto, di restare vigili.

Assumere la posizione Seiza (in giapponese “posizione corretta per sedersi”) permette un allineamento della colonna vertebrale, favorisce la respirazione ventrale e dunque consente di portare la forza nell’Hara. Inoltre, se la posizione, la postura è ben in asse, pur restando rilassata, è un’occasione straordinaria per distendere tutto il corpo.
Riposarsi, distendersi senza aver bisogno di sdraiarsi, costituisce da sempre una ricerca per le persone che lavorano all’aperto, che sono alla mercé di nemici, di predatori, o che sono semplicemente esposte a condizioni climatiche sfavorevoli. La posizione accovacciata, ancora utilizzata nella maggior parte dei paesi del continente africano, in America del Sud, in Australia e in molti altri paesi, possiede la stessa funzione. In merito a ciò Itsuo Tsuda Sensei ci riferisce un aneddoto nel suo libro La via della spoliazione: «In un articolo intitolato Delle tecniche del corpo* e concepito probabilmente prima del 1934, Marcel Mauss riporta quanto segue: “Il bambino si accovaccia normalmente. Noi non sappiamo più accovacciarci. Ritengo che questa sia un’assurdità e una inferiorità delle nostre razze, civiltà, società.”
E cita un’esperienza vissuta al fronte durante la prima guerra mondiale. Gli australiani (bianchi) con cui era, potevano riposarsi sui propri talloni durante le soste, mentre lui era obbligato a rimanere in piedi. “Lo stare accovacciati è, a mio avviso, una posizione interessante, dalla quale non bisognerebbe distogliere il bambino, come si fa da noi, commettendo il più grosso errore. Ad eccezione delle nostre società, tutta l’umanità l’ha conservata”.
La posizione accovacciata presuppone l’elasticità delle anche. È facendo l’Aikido che constato l’enorme differenza tra il giapponese e l’europeo. Il giapponese, intellettualmente e verbalmente meno strutturato, imita semplicemente quello che gli viene mostrato. L’europeo osserva, annota, costituisce un dossier e gli appiccica un’etichetta. Ma quando si mette ad eseguire un movimento, riesce difficilmente a coordinare il tutto. Se fa attenzione alla mano destra, dimentica la mano sinistra. In quanto ai piedi, non sa dove si trovino. Una tale abitudine mentale non facilita la pratica. Invece di avere due elementi, A e B, con B che imita semplicemente A, bisogna immettere un terzo elemento, C, che lo si chiami intelletto, dossier, o struttura, formando così un circuito deviato che complica la situazione.»**

L’infanzia, l’adolescenza

Prima di camminare eretti, ci siamo spostati a quattro zampe, poi vedendo gli altri bambini più grandi o gli adulti attorno a noi, per imitazione, ci siamo drizzati sulle due gambe. La posizione verticale ha liberato le mani e gli spostamenti sono diventati via via più rapidi anche con le braccia cariche di giocattoli. Durante questo periodo dell’esistenza, il terreno di gioco a cui siamo più abituati, quello in cui ci sentiamo a nostro agio, dove possiamo essere indipendenti dagli adulti, è il suolo. E questo accade in qualunque parte del mondo si viva. Poi sopraggiungono i grandi cambiamenti, poco a poco i corpi si sviluppano, si abbandona il suolo a vantaggio di qualcosa di più aereo, anche di più mentale, perché il cervello è meglio irrigato dalla posizione verticale, e dunque più si cresce più ce ne si allontana. La società che ci circonda mette a nostra disposizione seggioloni, divani e altri canapé su cui ci si può comodamente sedersi per divertirsi o lavorare, per rilassarsi o concentrarsi. Questo allontanamento dal suolo è quasi definitivo, non lo si ritroverà più se non in rari momenti di gioco con un bambino o all’occasione di una gita in spiaggia o su di un prato.

I Tatami

Quando scoprono il dojo e questa immensa superficie messa a loro disposizione, le persone avvertono come una sorta di gioia infantile che le spaventa e che allo stesso tempo le attira. Alcune persone hanno coscienza di ciò, altre restano semplicemente impressionate. Mentre i bambini si mettono immediatamente a correre e a rotolarsi per terra, gli adulti restano riservati, già consapevoli, forse, del percorso che bisognerà seguire.
I primi passi (se si può dire così) sui Tatami, cominciano da seduti. Molto spesso i debuttanti incrociano le gambe, ma anche se riescono ad adottare la posizione Seiza fin dall’inizio, cosa che è estremamente rara, non gli verrà quasi mai proposto di mantenere questa posizione per praticare. Dopo qualche secondo o qualche minuto di meditazione, il più delle volte l’intera seduta si svolgerà in piedi. Certo, noi non siamo in Giappone e un gran numero di persone hanno perduto l’abitudine di sedersi in questa maniera, ma invece di vedere questa cosa come una difficoltà da superare o un obiettivo da raggiungere, mi sembra interessante considerarla come un gioco. Un gioco che richiede un coinvolgimento fisico e mentale, ma sempre un gioco, e quindi un piacere. E anche se ci sono delle difficoltà, queste sono parte integrante del gioco che si è appena iniziato.

Ricentrarsi

La pratica in ginocchio è l’occasione per ricentrarsi pur restando rilassati. Io la faccio eseguire ogni giorno, lentamente, soprattutto con i debuttanti, ma è eccellente anche per gli anziani, perché un lavoro lento effettuato con movimenti legati (io utilizzo spesso il termine musicale italiano legato) permette a tutto il corpo di ricentrarsi. Se non si lavora con la forza muscolare delle braccia, come si è presa l’abitudine di fare, ma si proietta la propria energia a partire dal centro, dall’Hara, facendola scorrere lungo gli arti, si può percepire in modo soprendente la circolazione del Ki e constatarne gli effetti. Le braccia non devono essere né molli né rigide, ma elastiche e attive, potenti, di quella potenza che hanno quando sono piene di Ki. Il lavoro lento nella posizione in ginocchio, ad esempio nelle forme di base che sono Ikkyo o Yonkyo, permette, se si porta l’attenzione su questa direzione, di scoprire come lo Yin e lo Yang agiscono, come, per così dire, si dispiegano, si interpenetrano. Il ricentrarsi si fa allora automaticamente per il semplice bisogno di riequilibrio, gli appoggi sulle ginocchia diventano più leggeri perché il corpo ripartisce meglio il peso, le anche a loro volta ritrovano l’elasticità che avevano perduto a forza di muoversi solamente in posizione eretta.
Ci sono dei momenti che mi sembrano propizi per la pratica in ginocchio: l’inizio della seduta, perché, siccome è un lavoro lento, è un po’ come una rimessa in sesto, e la fine della seduta, il momento del Kokyu-ho, che si pratica in ginocchio e concentra inoltre in pochi minuti un gran numero di difficoltà di ordine fisico e mentale. È anche questo un lavoro per ricentrarsi durante il quale si può verificare lo stato del Koshi, la sua elasticità e dunque la postura in generale.

Una preparazione?

Prepararsi con il lavoro in ginocchio, permette anche di non essere sorpresi quando si presenta l’occasione di uno Shiho-nage con un partner nettamente più piccolo: il fatto di poter ruotare completamente mentre ci si inginocchia senza alcuna difficoltà e senza perdita di equilibrio per passare sotto il suo braccio, è un vantaggio innegabile.
Ma la rosa dei vantaggi della pratica in Suwari waza (tecniche in ginocchio) non si ferma qui.
Se prendo come esempio Irimi Nage in Hanmi Handachi Waza (tecnica realizzata con un partner in ginocchio e l’altro in piedi), si può sentire con più precisione il soffio dell’aspirazione verso il basso e si sente subito se si è centrati o meno, se si è riusciti a creare un vuoto sufficiente nel quale si è assorbito il partner, dove egli è disequilibrato mentre si resta stabili. Sempre in Hanmi Handachi Waza, tutto questo è ancora più visibile e concreto con due partner: la presa in Katate Ryote Dori (presa di un polso a due mani) comincia da un colpo che si trasforma in presa ed è l’istante cruciale per un Kokyu nage. La proiezione si può fare solo se si è sufficientemente lavorato al suolo, se si è capaci di divenire molto pesanti concentrando il Ki nel basso ventre e di farlo passare aldilà dell’estremità delle dita.
Sicuramente tutte le tecniche si possono eseguire a partire da questa postura a volte con alcune varianti, ma ciò che mi pare importante è che dopo aver lavorato in ginocchio la pratica in Tachi Waza (pratica in piedi) diviene molto più facile. Questo tipo di lavoro può avere diverse conseguenze, se la si esegue con la forza, con il desiderio di vincere, costi quel che costi, o per mantenere una reputazione, sostenere un ruolo. Senza aver trovato le linee che permettono la proiezione in modo flessibile, né la respirazione profonda e tranquilla, si rischia fortemente di danneggiare il corpo e dopo un certo tempo di avere dei grossi problemi alle ginocchia o alle anche e un handicap reale nella vita quotidiana.

Camminare

Camminare, spostarsi in ginocchio, può essere un buon esercizio e per questo c’è Shikko. Anche in questo caso l’importante è non forzare, non mostrarlo come una competizione, un tour de force in cui alcuni riusciranno più o meno felicemente. Shikko è un esercizio eccellente ma da utilizzarsi con moderazione, all’inizio soprattutto. Dopo qualche anno di pratica, se non si è forzato, allora diviene un piacere. Si può anche fare questo allenamento con un Bokken, colpendo ben diritti, questo modo di fare permette di verificare se sono proprio le anche a muoversi correttamente e se la rotazione avviene nella parte bassa del corpo e non del busto. Le spalle non devono assolutamente muoversi ma al contrario dovranno restare esattamente sull’asse di spostamento. Quando si arriva ad essere a proprio agio si può iniziare a colpire lentamente con il bokken mentre ci si muove. Tutti questi esercizi permettono di ritrovare della mobilità a livello delle anche. A mio parere non hanno un valore marziale immediato, semplicemente perché vengono eseguiti sui tatami, il che è normale, perché chi vorrebbe allenarsi sulla ghiaia, ad esempio, senza protezioni alle ginocchia?

Miracoli?

Cambiamenti, che per la persona a cui accadono sembrano assomigliare a dei miracoli, sono possibili. Qualche anno fa una donna è arrivata con delle stampelle, si spostava con enormi difficoltà da diversi anni. Molto decisa è venuta a praticare tutte le mattine al dojo. In un primo momento non le era possibile sedersi se non con le due gambe distese, poco a poco però, dopo qualche settimana, la sua condizione era migliorata. Dopo un mese riuscì a mettersi sulle ginocchia, ma ovviamente, diritta e rigida come un palo. A partire da quel momento ha cominciato a scendere, centimetro dopo centimetro, per finire, dopo diversi mesi, per sedersi sui talloni senza dolore, e qualche tempo dopo ancora per trovarci piacere. Non è un caso unico, c’è in questo momento al dojo Tenshin, a Parigi, un signore in pensione che era arrivato con dei grossi problemi alle ginocchia e alle caviglie dovuti a diverse operazioni chirurgiche risalenti a diversi anni prima. In meno di un anno di pratica assai regolare (viene tutti i giorni) ha ritrovato una mobilità che non sperava più e ora si siede sui talloni. Non forzare, prendersi il tempo, avere una continuità, se qualcosa è possibile si farà naturalmente. Ad essere del tutto onesti devo dire che le due persone in questione si sono messe a praticare anche il Katsugen Undo (Movimento Rigeneratore) cosa che ha facilitato il lavoro dei loro corpi e il loro rimettersi in ordine.

Indispensabile il lavoro al suolo?

Niente è mai indispensabile, ma è necessario? È certo che si può farne a meno, c’è anche una quantità di buone o cattive ragioni per evitarlo, si può argomentare in questi termini: fa male alle ginocchia, è pericoloso per le articolazioni, non serve a niente perché nessuno si muove più in questo modo, ecc. Se non se ne comprende l’utilità, perché forzarsi? Ci sono così tanti rituali, esercizi che sono divenuti incomprensibili nella nostra società moderna, che anche il semplice fatto di salutarsi inchinandosi può apparire desueto, o addirittura ridicolo per molti occidentali che saranno pronti a rimpiazzarlo con il shake-hands (una Stretta di mano). A forza di adattarsi alla modernità non si rischia di mancare il bersaglio, di perdere l’essenziale, lo spirito che ci guida nell’ Aikido, oserei dire la sua anima?

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Articolo di Régis Soavi pubblicato in Dragon Magazine (speciale Aikido n° 25) nel mese di luglio del 2019.

* Mauss Marcel, Teoria generale della magia e altri saggi (tit. Orig. Sociologie et Anthropologiee, Presses Universitaires de France. 1950 p. 374.), Parte Sesta, “Le tecniche del corpo: Principi di classificazione delle tecniche del corpo”, Giulio Einaudi Editore, 1965, p.395
** Tsuda Itsuo, La via della spoliazione, Ed. Yume, p. 163-164.

Crediti foto

Régis Sirvent, Bas van Buuren, Paul Bernas.

Superficialità o approfondimento

In questo articolo, a partire da un tema tratto dall’I-Ching (esagramma Tsing = Il pozzo),
Régis Soavi Sensei ci parla delle pratiche dell’Aikido e del Movimento Rigeneratore come strumenti di ricerca e approfondimento di sé.

Il dojo è, per essenza, il pozzo dove vengono a nutrirsi i praticanti di arti marziali alla ricerca della Via, del Tao. All’opposto del ring o della palestra, offre un luogo di pace necessario, se non addirittura indispensabile, per l’approfondimento dei valori umani.

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Dojo, un altro spazio-tempo

di Manon Soavi

«[…] Il cammino per la scoperta di sé in profondità […]» diceva Tsuda Sensei «non è una linea retta verso il paradiso, è tortuoso.»(1) Come i musicisti classici passano la loro vita in una ricerca infinita di evoluzione, i praticanti di arti marziali sono su cammini senza fine. Peraltro queste vie non sono prive di senso, di cartelli stradali e di verifiche. Uno dei cartelli stradali che ha lasciato Tsuda Sensei ai suoi allievi è «Dojo».

Egli stesso scrive in materia: «Come ho già detto, il dojo non è semplicemente uno spazio a parte e riservato a certi esercizi. È un luogo dove lo spazio-tempo è diverso da quello di un luogo profano. L’atmosfera è particolarmente intensa. Vi si entra salutando per sacralizzarsi e si esce salutando per desacralizzarsi. […] Mi si dice che in Francia, si trovano dei dojo che sono semplicemente delle palestre o dei club sportivi. E sia. Ma, quanto a me, io voglio che il mio dojo sia un dojo, e non un club con un gestore e dei clienti abituali, e questo allo scopo di non disturbare la sincerità dei praticanti. Ciò non significa che essi debbano avere una faccia corrucciata e compassata. Al contrario, bisogna mantenere uno spirito di pace, di comunione e di gioia.»(2)
Ma perché creare dei Dojo? È alquanto faticoso e richiede molto lavoro!

Costruire un dojo, un’avventura incerta !

Per rispondere a questa domanda bisogna, forse, ritornare al motivo per cui pratichiamo. Se ogni risposta è individuale e complessa, personalmente concordo con coloro che pensano che pratichiamo prima di tutto per «essere». Per «essere» veramente, non fosse che per il tempo di una seduta.
L’Aikido è allora uno strumento per ritrovare noi stessi. Cominciare ad «essere» sui tatami è un primo passo che comincia con un “lasciar andare”: accettare di salire sui tatami e di entrare in contatto con gli altri! Ma un contatto diverso da quello retto dalle convenzioni sociali. D’altra parte a volte constato la riluttanza di alcuni debuttanti ad indossare un Keikogi, come se conservare la loro tuta da ginnastica consentisse loro di salvaguardare un’identità sociale. Il Keikogi ci mette tutti su di un piano di uguaglianza, al di fuori dalle etichette sociali, cancella le forme del corpo, i sessi, le età, gli stipendi… Ben inteso però, a patto che non si faccia sfoggio dei gradi, dei dan per mostrarsi superiori con i debuttanti. Se la nostra mentalità o il nostro stato d’animo è quello di vivere una pratica insieme all’altro, e non quello di mostrare di essere i più forti, allora la paura dell’incontro con l’altro può diminuire. Nella Scuola Itsuo Tsuda non ci sono gradi, questo risolve la questione una volta per tutte.

L’avventura comincia all’aurora (3)

Il Dojo stesso è un luogo fuori dal tempo sociale, fuori dall’epoca, indifferente alla localizzazione geografica, e anche tutto ciò ci disorienta completamente. Inoltre noi pratichiamo al mattino presto (come faceva O Sensei Ueshiba). Le sedute si tengono tutte le mattine, tutto l’anno, alle 6.45 durante la settimana e alle 8.00 nel week-end. Che nevichi, che ci sia il sole, che sia un giorno di vacanza o di lavoro, il Dojo è aperto e ci sono le sedute. Al di là della suddivisione arbitraria del tempo del nostro mondo.
Anche l’alba è un tempo particolare. Tra il risveglio e la pratica non c’è quasi nulla. L’autore Yan Allegret l’ha così espresso in un articolo apparso in KarateBushido: «Avviene intorno alle 6 del mattino. Delle persone escono di casa e si dirigono verso un luogo. A piedi. In macchina. In metropolitana. Fuori, le strade di Parigi sono ancora assonnate, quasi deserte. L’alba è vicina. La seduta di Aikido inizia alle 6:45. Il ritmo della città è ancora quello della notte. Quelli che sono usciti non hanno ancora indossato le armature necessarie alla giornata di lavoro che si annuncia. Qualcosa rimane in sospeso. Con la nascita del giorno si ha l’impressione di camminare in un interstizio.»(4)
Un interstizio di tempo e spazio durante il quale si può cominciare il lavoro su noi stessi. Perché bisogna perdere, almeno un po’, i nostri punti di riferimento abituali per ritrovare la sensazione interiore dei nostri riferimenti. La sensazione della nostra velocità biologica piuttosto che il tempo scandito dal quadrante dell’orologio. Per ascoltare sé stessi c’è bisogno di silenzio intorno. E nel nostro mondo il silenzio non è una cosa facile da trovare!

Uno scrigno

dojo tenshin paris
Mettere l’uomo in armonia con sé stesso

È per questo che nella Scuola Itsuo Tsuda diamo tanta importanza alla creazione dei Dojo. Certo, è possibile praticare ovunque, adattarsi a tutte le circostanze. Ma è sempre auspicabile? Per riprendere il parallelo con la musica (argomento che conosco bene, avendo esercitato per circa quindici anni la professione di pianista e concertista) si può suonare all’aperto, in una palestra, in una scuola, una chiesa, un ospedale, ecc. E del resto non ho nulla contro la democratizzazione della musica classica, al contrario. Ma una buona sala da concerto è un’altra cosa. È uno scrigno, dove il musicista, invece di passare il tempo ad adattarsi alla situazione, a compensare la cattiva acustica o altro, può immergersi nell’ascolto, cercare la finezza e far sorgere la musica. Vivere le due esperienze è sicuramente necessario per un professionista. Per un debuttante trovare la concentrazione e la calma in mezzo all’agitazione o alle correnti d’aria mi sembra francamente molto difficile.
Nel caso dell’Aikido il Dojo è lo scrigno di questa ricerca. Se si coglie questa possibilità di avere un Dojo, si apre un’altra prospettiva. Perché se la nostra mente può comprendere i concetti filosofici che sottendono il discorso sulla Via, lo stato d’animo, ecc., far sì che il corpo li viva realmente, è un’altra questione. Siamo spesso troppo occupati, perturbati, e abbiamo veramente bisogno di un ambiente che favorisca certe disposizioni di spirito.
Si può constatare, man mano che se ne fa l’esperienza, che lo spirito di Dojo viene coltivato in modo preciso e allo stesso tempo in un ambiente fluido e inafferrabile. Avviene la stessa cosa che per i luoghi di culto. A volte in una piccola chiesa di campagna, una cappella nascosta all’angolo di un vicolo, si respirano più silenzio e sacralità che non in una immensa cattedrale visitata da milioni di turisti. Nei Dojo avviene la stessa cosa. Non sono né la dimensione né il rispetto assoluto delle regole che lo rendono un luogo differente. Dojo «il luogo dove si pratica la via», è un’alchimia tra il luogo, il modo in cui è allestito, l’atmosfera che vi regna. Non basta che il Dojo sia bello, benché un tokonoma con una calligrafia montata su kakejiku, un ikebana, creino un ambiente, è necessario che esso sia pieno e vivo dei suoi praticanti!
L’architetto Charlotte Perriand ha fatto questa considerazione a proposito della casa giapponese che «non cerca di apparire, ma di mettere l’uomo in armonia con sé stesso»(5).
È una bella definizione che si può perfettamente applicare alla nozione di Dojo. Mettere l’essere umano in armonia con sé stesso e quindi con la natura di cui facciamo parte. Non appena si entra nel dojo, lo si deve sentire subito. Le persone spesso restano per un breve istante come in sospeso, anche i semplici visitatori. È istintivo.
L’attività che regna nel Dojo è anche un aspetto essenziale. Si ha la possibilità di occuparsi della totalità degli aspetti della vita. I membri fanno la contabilità, i lavori, le pulizie…
A proposito delle pulizie del Dojo Tamura Sensei diceva: «Questa pulizia non concerne solamente il Dojo di per sé stesso, ma anche il praticante che, tramite questo gesto, compie una pulizia in profondità del proprio essere. Il che significa che anche se il Dojo sembra pulito, bisogna comunque pulirlo ancora e ancora.»(6) Il sinologo J.F. Billeter parla di «attività pulita» quando l’attività umana diventa l’arte di nutrire la vita in se stessi. Ciò faceva parte delle ricerche degli antichi Taoisti cinesi. Per noi, nel XXI secolo, si tratta ancora di riappropriarsi dell’attività umana, di rimettersi in relazione con essa non come una cosa separata dalla nostra vita, che ci consente di guadagnare denaro e aspettare le vacanze, ma come un’attività totale. Una partecipazione di tutto l’essere all’attività. Il lavoro dei membri ad un’opera comune nel proprio Dojo permette loro anche di appropriarsene, non come di una proprietà, ma nel vero senso di un bene comune: «ciò che è di tutti è mio», e non «è di tutti, quindi di nessuno, e me ne frego». Per questo rovesciamento di prospettiva a volte ci vuole del tempo. Non lo si può apprendere con le parole o con delle regole rigide. Si scopre e bisogna sentirlo da sé.
A volte mi viene detto: «Al Dojo è possibile, ma al lavoro o a casa è impossibile». Non ne sono così sicura. Se quanto si è approfondito al Dojo è sufficiente, allora si sarà capaci di portarlo altrove. O Sensei Ueshiba diceva: «il Dojo è là dove io sono».
Forse non rivoluzioneremo il mondo in un colpo solo, certo, ma ogni volta che reagiremo differentemente il mondo intorno a noi cambierà. Ogni volta che saremo capaci di ritrovare il nostro centro e di respirare profondamente le cose cambieranno. Tutti i nostri problemi si risolveranno, ma noi li vivremo in maniera differente, allora anche la nostra realtà sarà diversa.

Un luogo vuoto ben pieno

Non avere soldi è un vantaggio

Per Musashi Miyamoto tutto può essere un vantaggio. Nel momento di un combattimento avere il sole alle spalle può essere un vantaggio, se il nemico ha il sole alle spalle e pensa di essere avvantaggiato, è un vantaggio. Perché tutto dipende dall’individuo, da come si orienta. A volte anche non avere soldi è un vantaggio, perché allora non abbiamo altra soluzione che quella di creare, di inventare delle soluzioni. È quindi possibile creare dei Dojo senza sovvenzioni, interamente dedicati a una o due pratiche, ciò che a priori era impossibile diventa realtà.
A volte la difficoltà ci stimola a creare ciò che ci è indispensabile. Nell’essere inquilino, nell’essere volontario, nel fare da soli, nel non cercare la perfezione ma la soddisfazione interiore. Ascoltando le proprie esigenze interiori e non gli uccelli del malaugurio che vi dicono che non funzionerà ancor prima di aver iniziato.
Temporaneo? Come tutto ciò che vive sulla terra, sì, ma di un temporaneo vissuto pienamente nell’istante. Vivere intensamente, seguire il proprio cammino, non è una cosa «facile». Ma i poeti ci hanno già dato dei consigli, come R.M. Rilke: «Sappiamo poco, ma che dobbiamo attenerci al difficile è una certezza che non ci deve abbandonare.»(7)
Costruire tutto accettando l’instabilità, lavorare per essere soddisfatti e non per uno stipendio o per la fama, ecco dei valori che vanno piuttosto in senso contrario rispetto alla nostra società del piacere immediato, del consumo come compensazione alla noia. Se oggi non ci sono più necessariamente, nella nostra società, delle lotte per la sopravvivenza, c’è sempre una lotta per avere sempre di più. Una felicità di facciata, una vita messa in scena, che viene esibita sui nostri social network. Come hanno teorizzato i situazionisti della fine degli anni Sessanta, ciò che viene direttamente vissuto scompare in una rappresentazione, la vita diventa quindi un accumulo di spettacoli, fino al suo parossismo, in cui la realtà si inverte: la rappresentazione della nostra vita diviene più importante del nostro vissuto reale. Come diceva Guy Debord «Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso.»(8)

In un Dojo si lavora per riallacciarci con il vero che persevera in noi
È esattamente nello stesso senso che va la pratica del Katsugen Undo, che permette il risveglio delle capacità del corpo. Il risveglio della vita, della nostra natura profonda. Allora la realtà non è più un’oppressione che ci impedisce di fare ciò che vogliamo della nostra vita, ma tutto al contrario, è la percezione sottile della realtà che ci mostra che tutto dipende da noi, dalla nostra orientazione. Il fondatore del Katsugen Undo, Noguchi Haruchika Sensei, scrive alcune riflessioni a proposito dell’opera di Chuang-Tzu. Queste riflessioni sono di grande interesse e io non resisto a terminare questo articolo utilizzando le voci intercalate di questi due pensatori:
«Chuang-Tzu ha visto come un tutto unico i contrari di bene e male, di bellezza e bruttezza, e dell’utile e dell’inutile, e per lui la vita e la morte erano anche un tutto unico, quello che nasce muore e quello che cessa di esistere torna in vita. “La vita sorge dalla morte e la morte sorge dalla vita” ha scritto.»
«Quando Tsu-Yu contrasse una malattia paralizzante, Tsu-Szu andò a trovarlo e gli chiese: “Pensi che il tuo destino sia spiacevole?” La risposta di Tsu-Yu fu sorprendente: “Perché dovrei trovarlo spiacevole? Se si sono prodotti dei cambiamenti e il mio braccio sinistro si trasforma in un gallo, lo userò per annunciare l’alba. Se la mia spalla destra è trasformata in un proiettile, la userò per abbattere un piccione da arrostire. Se i miei glutei diventano ruote di carro e il mio spirito un cavallo, viaggerò grazie a loro. Allora non avrei bisogno di altro veicolo che me stesso – sarebbe meraviglioso!” […]
Questa è la strada che Chuang-Tzu percorre. Nella sua attitudine – che qualsiasi cosa accada, è appropriata, e che quando qualcosa accade, vai avanti e affermi la realtà – non vi è nessuna traccia della rassegnazione che si trova nel sottostare al destino. La sua affermazione della realtà non è altro che l’affermazione della realtà. La dignità di quest’uomo è espressa dalle sole parole di Lin Chi: “Ovunque tu sia, sii padrone”.»(9)

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Articolo di Manon Soavi pubblicato in Dragon Magazine (speciale Aikido n 24) nel mese di april del 2019.

Note:
1. e 2. Itsuo Tsuda, Cœur de Ciel Pur, Éditions Le Courrier du Livre, 2014, p.86 e p.113.
3. Jacques Brel, 1958.
4. Yann Allegret, À l’affût du moment juste, KarateBushido 1402, février 2014. Traduzione e adattamento Scuola Itsuo Tsuda, Alla ricerca del momento giusto, New Martial Hero Magazine, aprile-giugno 2014.
5. Mona Chollet, Chez soi. Une odyssée de l’espace domestique, Edition La découverte 2015 p.311.
6. Noboyoshi Tamura, Aikido, Les presses de l’AGEP, 1986, p.19.
7. Rainer-Maria Rilke Lettere ad un giovane poeta Adelphi 1997 p. 48.
8. Guy Debord, La Società dello Spettacolo Baldini-Castoldi 2017 p 66.
9. Haruchika Noguchi sur Tchouang-Tseu edition Zensei, traduzione Scuola Itsuo Tsuda Chuang-Tzu https://www.ecole-itsuo-tsuda.org/it/noguchi-sur-tchouang-tseu-3/

Foto
Jérémie Logeay, Paul Bernas, Anna Frigo

La presa, un’arte del distacco

di Régis Soavi

La presa in sé non è la difficoltà, è la coagulazione del ki nel polso, nelle braccia o intorno al corpo a porre un problema e a bloccarci, ed è attraverso il distacco che ce ne si potrà liberare. La visualizzazione è il modo di arrivare a questo distacco. Tsuda Sensei ce ne fornisce un esempio nel suo secondo libro, La via della spoliazione.

Ridiventare bambini

Aide-mémoire Itsuo Tsuda saisie
Aide-mémoire dessiné par Itsuo Tsuda, 1972 illustrant différents types de saisie

«L’Aikido per me è un’arte di ridiventare bambini. […] C’è bisogno di un’arte per ridiventare bambini senza essere puerili. […] Jean per esempio, mi afferra da dietro circondandomi con le braccia. Voglio abbassarmi per sedermi ma mi impedisce di farlo. Ha dei bicipiti che sono il doppio dei miei e pesa circa 90 chili. Non posso muovermi talmente mi stringe forte. Cosa si deve fare? Proiettarlo prima di sedermi? Ci provo, ma non ci riesco, poiché è troppo pesante e troppo forte.
Allora divento bambino. Vedo una conchiglia meravigliosa sulla spiaggia e mi abbasso per prenderla. Dimentico Jean che continua a stringermi da dietro. (Tecnicamente c’è un dettaglio importante: porto avanti un piede per fare, insieme all’altro, due lati di un triangolo, poiché è più concentrato). C’è scorrere del Ki, che parte da me e va verso la conchiglia, mentre prima il Ki era bloccato sul pensiero di Jean. Jean con i suoi 90 chili diventa molto leggero e cade in avanti al di sopra delle mie spalle.
Come può accadere che con idee diverse si ottengano risultati opposti, mentre la situazione rimane la stessa?
L’idea di proiezione provoca la resistenza. Nel gesto del bambino, c’è la gioia di raccogliere la conchiglia che fa dimenticare la presenza dell’avversario.»*

Prendere, appropriarsi

Ci sono molti modi di afferrare, e ciò che è spesso determinante è l’intenzione che ci viene messa. Alcuni di questi modi possono essere considerati superficiali, persino inoffensivi, altri più pericolosi, come ad esempio quelli che presentano un carattere di appropriazione, altri ancora possono essere a volte insidiosi e insistenti.
La scenografia che permette l’allenamento nell’Aikido considera che la presa sia il risultato di un atto che si manifesta con una certa aggressività. Questo atto è già di per sé stesso un tentativo di appropriarsi dell’altro per farne qualcosa, derubarlo, distruggerlo, distruggere la sua persona o la sua personalità, tralasciando i casi legittimi che non ci riguardano in quest’esempio. Si tratta di un abuso di potere, reale o irreale, manifesto o desiderato, sull’altro, questo altro che si suppone impossibilitato a reagire davanti ad una tale manifestazione di potenza.

Una presa di potere

Nel mondo animale il potere di un individuo o di un clan, all’interno di un gruppo più numeroso della stessa specie, corrisponde a dei criteri ben precisi, generalmente legati alla riproduzione, alla preservazione, o alla difesa di un territorio. Di conseguenza è sopportato e in fin dei conti accettato dall’intero gruppo; se insorgono tentativi di contestazione, dei rituali genetici o semplicemente ancestrali servono a chiarire la situazione.
All’interno della società umana, e in particolare la nostra che si vorrebbe più moderna da un certo punto di vista, il bisogno di prendere il potere sull’altro mi sembra essere più un segno di disfunzione, se non di malattia, creato dal nulla dai comportamenti indotti dalla civilizzazione. L’incertezza del proprio potere, il condizionamento esercitato da tutto quanto è già organizzato all’interno della società, provocano una frustrazione e spingono l’essere umano a cercare di riconquistarlo attraverso parole o azioni là dove questo potere non c’è, là dove non lo troverà, e cioè nell’altro, che in fin dei conti non lo detiene. Invece questo comportamento lo obbliga mentalmente ad assumersi tutti i rischi che questa vana speranza comporta. La nascita di questo tipo di aggressività proviene spesso da una mancanza, da un deficit, ammesso o meno, del proprio potere, che si cerca di colmare. Le pressioni percepite, subite, e dunque vissute come tali a volte sin dalla più tenera infanzia, conducono alcuni individui a volersi riappropriare di ciò che percepiscono, nella loro intimità, come un qualcosa di cui sono stati privati, derubati, o anche che hanno semplicemente perduto. Ciò fa di questi individui delle persone pericolose a causa della loro semplice frustrazione. Ognuno di noi può comprendere e percepire questo genere di cose nel momento in cui si ritrova impotente davanti ad un’amministrazione, o in occasione di una presa di potere su di sé da parte di qualcuno contro il quale non può, apparentemente, nulla. Da qui a divenire aggressivi non c’è che un passo, che alcuni compiono laddove altri invece ci ragionano, si rassegnano, perché hanno già accettato, per via dell’abitudine, questo stato di dominazione e lo subiscono nel quotidiano. Se alcuni ne restano solo leggermente toccati è perché hanno già passato questo tipo di difficoltà e non sono indeboliti nel loro potere, non lo hanno mai perduto o lo hanno già ritrovato.

Prigioniero

«Tel est pris qui croyait prendre»* recita il proverbio, ed è proprio questo rovesciamento di prospettiva che si opera nel momento della presa. Si dimentica troppo facilmente che colui che prende diviene prigioniero di quello che ha preso. Egli non può disfarsene senza rischiare di perdere qualcosa nel processo che ha innescato. La sua libertà, ammesso che ne abbia una, si trova ad essere dipendente da colui o colei che egli pensava poter detenere o trattenere. Egli diventa il carceriere dell’altra persona, la quale non pensa più che a liberarsi, e ci metterà tutta la sua forza, la sua intelligenza, perfino la sua astuzia, se non addirittura la sua perfidia, poiché ne ha tutto il diritto e nessuno potrà biasimarla. La nostra società genera questo tipo di comportamenti alienanti, all’interno dei quali sia l’uno che l’altro cercheranno di liberarsi, l’uno contro l’altro, invece di passare ad un’altra dimensione, più umana, più intelligente, più rispettosa di questo altro. Voler cambiare questi comportamenti può sembrare un’utopia, però, se l’Aikido esiste e continua ad essere un’arte al servizio dell’umanità, è forse per dire e mostrare che, come altri hanno già enunciato, degli altri rapporti sono possibili tra le persone, e noi non siamo i soli, noi aikidoka, a desiderare di voler continuare lungo questa direzione.

La respirazione, una risposta in una situazione particolare

È attraverso la respirazione ventrale e la calma che ne risulta, che si può trovare la soluzione immediata a certe situazioni difficili. Per prepararsi non è assolutamente necessario essere un tecnico eccezionale, un grande guerriero, o un analista assai competente, al contrario si ha la necessità di ritrovare questa forza che si è rifugiata nel più profondo del nostro corpo, nel nostro Kokoro, o che talvolta si è perfino dispersa in molteplici sistemi di difesa. Cercare nelle arti marziali violente una soluzione di difesa di fronte alla coscienza della nostra debolezza, reale o presunta, è solo una scappatoia, un’alternativa o peggio una fuga in avanti. L’Aikido, nella sua filosofia, propone un’altra direzione che, se non viene intesa e soprattutto compresa, rischia di fargli perdere la sua ragion d’essere, la sua particolarità.
Gli attacchi nell’Aikido non sono che una messa in situazione per permettere ai praticanti di risolvere un problema, un conflitto che in d’altra parte li oppone più a sé stessi che al loro partner. Le prese per esempio rappresentano spesso dei tentativi di immobilizzazione del corpo, dunque del movimento dell’altro, attraverso un imprigionamento dei polsi, delle braccia, del tronco, del keikogi o di qualsiasi altra parte che lo consenta. A volte, invece, le prese possono essere la prosecuzione di attacchi che non hanno raggiunto l’obiettivo. Raramente sono soltanto un tentativo di bloccaggio, se le si considera dal punto di vista del combattimento saranno quasi sempre seguite da un atemi o da un’immobilizzazione definitiva. Le prese non sono che il primo atto, la prima scena di una “pièce”, se si può dire così, molto più lunga. È lavorando sulle prese che si scoprirà, e questo può sembrare paradossale, il distacco.

Avant la saisie, on est touchée par quelque chose d’invisible.

La sensibilità, l’istinto

Molto prima che la presa o l’attacco si concretizzino la nostra sensibilità è raggiunta da qualcosa di invisibile ma tuttavia di molto materiale. È forse inspiegabile nello stato attuale delle conoscenze scientifiche, ma è qualcosa che conosciamo bene, e a volte anche molto bene. È ciò che ci fa muovere, schivare, quando ancora non abbiamo visto nulla, ma abbiamo soltanto sentito in modo indefinibile. Per fornire un esempio più chiaro e che ognuno ha potuto verificare, in un modo o in un altro, in diverse situazioni, vorrei parlare dello sguardo. Lo sguardo è portatore di un’energia, di un Ki estremamente concreto che il nostrto istinto può percepire. Potrebbe esservi capitato, mentre camminavate, una sera o una notte, di sentre qualcosa di indescrivibile dietro di voi, come se qualcuno vi stesse guardando, osservando, vi girate, nessuno, ma nonostante tutto la sensazione persiste. Questa sensazione, se non siete tranquilli, può trasformarsi in angoscia, ovvero può scatenare una paura «irrazionale visto che non c’è nessuno», quando di colpo scoprite, all’angolo della strada, dietro una tenda semiaperta, qualcuno che vi osserva, oppure, sopra un tetto, un gatto che vi guarda. Lo sguardo dei gatti, degli animali in generale, allo stesso modo di quello degli umani quando osservano intensamente qualcosa o qualcuno, è portatore di un Ki estremamente potente. Il nostro istinto è capace di sentirlo, ma tutto dipende dallo stato del nostro stato d’animo in quel momento. Se stiamo chiacchierando con un amico, se siamo persi nei nostri pensieri dopo un incontro amoroso ad esempio, il nostro istinto, se è poco preparato, avrà difficoltà a sentire questo genere di cose. È lo stesso, ovviamente, se siamo preoccupati, spaventati o angosciati, tutto il nostro essere, in questo caso, è in qualche modo indebolito, perde le sue capacità istintive.

Scoprire la direzione presa dal Ki

L’Aikido ci permette di riscoprire e di guidare le nostre capacità istintive. È grazie ad un lento lavoro su noi stessi e sulle nostre sensazioni che riapparirà ciò che spesso abbiamo lasciato addormentarsi, cullati dal comfort dovuto alla società moderna, che può sembrarci così rassicurante.
Il lavoro a partire dalla prese corrisponde, come tutto ciò che facciamo nell’Aikido, a un ri-apprendimento e ad un allenamento del corpo nel suo insieme, in modo che non ci sia più separazione tra il corpo e lo spirito. Già quando il nostro partner si avvicina, non si tratta di aspettare gentilmente che egli faccia la presa richiesta, tutto il nostro corpo deve sentire le direzioni prese dalle diverse parti del suo corpo: braccia, gambe, i suoi punti di appoggio, e tutto questo senza guardare, senza osservare, perché sarebbe già troppo tardi. Per quanto riguarda i debuttanti inesperti, se l’esercizio è sufficientemente lento, essi potranno scoprire i cammini percorsi dal Ki dei loro partner, le linee di forza. Poiché lavorano senza rischi, ricominciano ad avere fiducia nelle reazioni e nelle sensazioni del loro corpo. Durante le sedute non mostro solamente le tecniche, sono continuamente in movimento, facendo da Uke all’uno, da Tori all’altro, senza bloccarli faccio sentire loro la direzione che il loro corpo deve prendere e mi metto io stesso nella situazione, rendendo ancora più concreto il Ki, materializzando le linee di forza, visualizzando le aperture che essi possono utilizzare, tutto questo lasciando loro la capacità di agire, di regire a modo loro.

Scoprire il Non-fare

La presa può essere un primo passo nel cammino che conduce verso ciò che Lao Tsu o Chuang Tsu designano con il nome di Wu wei, il Non-agire, e questa è stata la base dell’insegnamento del mio maestro Itsuo Tsuda. Come insegnare ciò che non è insegnabile, come mostrare l’invisibile, come guidare un debuttante o anche un anziano verso quella che è l’essenza della pratica nella nostra Scuola? Ciò che risulta difficile spiegare a parole, si comprende facilmente quando ci si lascia guidare dalla sensazione. Per questo dobbiamo fare qualche passo indietro: accettare di lasciare le nostre abitudini di acquisire e accumulare, questi riflessi del consumatore sempre pronto a riempire il suo carrello di prodotti diversi, di tecniche più o meno moderne, alla moda o all’antica, miracolose, facili e senza sforzo, o dure ma efficaci. Oggi la pubblicità è all’origine di tante illusioni, facendo luccicare agli occhi dei clienti le meraviglie colorate di un mondo divenuto tanto virtuale. Quanto manca perché si possa praticare l’Aikido sulla console Wii con un casco di realtà aumentata e un partner di cui si possa regolare il potenziometro in funzione del proprio livello, della propria forma, o del proprio umore?
Ma è possibile che io sia in ritardo e che questo esista già.

Prendere con il Ki

I bambini piccoli conoscono e utilizzano naturalmente un certo tipo di presa estremamente efficace, si tratta di una presa vuota da tutte le contrazioni inutili. Nel prendere un gioco mettono tutto il loro ki e quando lo lasciano lo fanno con un’indifferenza completa, non c’è più nessun Ki dentro. Invece hanno una capacità incredibile quando non vogliono lasciare quello che hanno preso e che tengono nella loro piccola mano chiusa. Se è qualcosa di pericoloso, i genitori dovranno a volte aprire loro la mano dito per dito, nonostante egli sia piccola e priva di reale forza muscolare, nel senso in cui l’intendono gli adulti. Essi sanno, in modo completamente inconscio, come utilizzare il Ki, non hanno bisogno di impararlo, sfortunatamente perdono spesso questa facoltà a favore della ragionevolezza e sono l’educazione e la scolarizzazione ad esserne più spesso responsabili.
Reimparare a prendere come un bambino piccolo, senza tensione, e scoprire grazie a ciò la prensilità naturale. Utilizzo spesso come esempio la maniera in cui gli uccelli si posano su di un ramo: essi hanno dei microsensori cutanei in mezzo alle zampe che informano dei ricettori, i quali, grazie a queste indicazioni, animano delle funzioni riflesse a livello dell’involontario e impartiscono l’ordine alle loro dita di chiudersi non appena toccano il ramo. Questo modo di prendere evita le tensioni, i fallimenti e consente un adattamento molto preciso delle membra al punto che si è afferrato. Una presa di qualità è una presa che utilizza il palmo della mano come primo contatto, poi le dita si chiudono sull’oggetto, sulle membra, sul keikogi. Se si agisce in questo modo le prese sono più rapide, senza tensioni eccessive e di un’efficacia notevole, e possono così permettere un lavoro di buona qualità con un partner.

Le uniche prese dell’altro che ne rispettano la libertà sono leggere ma potenti, come quelle ad esempio di un bambino piccolo che vuole portare uno dei suoi genitori verso una piccola rana appena osservata nell’erba alta e di cui è curioso, o come quelle di due esseri, amici o amanti, uniti dalla tenerezza e dal rispetto reciproco.

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Articolo di Régis Soavi pubblicato in Dragon Magazine (speciale Aikido n° 24) nel mese di april del 2019.

* Itsuo Tsuda, La Via delal spoliazione, Yume editions, 2016, p. 179.
* “Tel est prise qui croyant prendre” proverbio francese, tratto da una favola di La Fontaine “Il topo e l’ostrica” che in una versione italiana suona « Chi prender gli altri crede/ talor se preso vede” e cioè “A volte chi crede di prendere gli altri finisce per essere preso”.

Misogi

In questo articolo, a partire da un tema tratto da I-Ching (Khann = l’abissale), Régis Soavi Sensei ci parla dell’Aikido come una pratica di Misogi.

Il Misogi 禊 è una pratica molto presente presso gli shintoisti. Consiste in un’abluzione, a volte sotto una cascata, in un corso d’acqua, o anche nel mare, e permette una purificazione allo stesso tempo fisica e psichica della persona. In un senso più ampio, Misogi include tutto un processo di risveglio spirituale. È anche un’azione che mira a dare sollievo all’essere da quello che l’opprime, per permettergli di risvegliarsi alla vita. L’acqua è sempre stata considerata come uno dei suoi elementi essenziali.

Leggi tutto : http://www.scuoladellarespirazione.org/misogi/

Taiheki, il rivelatore

di Régis Soavi

Noro Sensei, negli anni Settanta, ci raccontava che Ō Sensei Morihei Ueshiba rimprovera­va talvolta ai suoi allievi la loro mancanza di attenzione nel momento in cui telefonavano da una cabina pubblica, concentrati com’erano sulla loro conversazione: «Dovete essere pronti in tutte le circostanze, qualsiasi cosa facciate!» diceva.

L’Aikido opta per una posizione naturale, senza guardia, detta Shizen Tai. Ma una postura naturale non è affatto una postura rilassata come la si intende oggi, in ogni caso la con­centrazione e l’attenzione non devono essere rilasciate. Se la guardia più diffusa nell’Aiki­do resta Hammi no Kamae, come tutte le altre anche questa dipende, più di quanto non si creda, dalla polarizzazione dell’energia nel corpo.

Kamae, l’istinto del corpo

Mi ricordo di quello che ci aveva detto Maroteaux Sensei in occasione di una delle mie pri­me sedute di Aikido al dojo della Montagne Sainte-Geneviève: «Aprite la porta, un cane vi salta alla gola, che fate?» Evidentemente ero rimasto senza parole, ma la domanda che ci aveva posto, al tempo in cui ero un giovane praticante di arti marziali piuttosto sicuro di sé all’epoca, mi aveva scosso, e questo fu all’origine delle mie ricerche sulle Kamae.
Mettersi in guardia è la risposta ad un atto aggressivo o ad una sensazione di pericolo. Per chi non conosce le arti marziali questa risposta sarà istintiva, mentre per un praticante sarà il risultato della sua formazione. Le sue ricerche personali potrebbero portarlo a utiliz­zare il suo corpo in una maniera diversa da quella che aveva appreso e per questa ragio­ne troverà un posizionamento o una guardia che gli conviene, a volte più pertinente, a vol­te tale da tendere una trappola lasciando credere ad un’apertura o ad una debolezza da parte sua. Sebbene ci siano numerosi modi di mettersi in guardia, e dunque di proteggersi, si deve tener conto del proprio corpo; malgrado tutto ciò che si è appreso, malgrado gli anni di allenamento, come ultima risorsa sarà l’istinto a guidarci. Il lavoro sulle arti marziali, lungi dall’essere inutile, sarà piuttosto in questo caso un supporto, un appoggio. Il rischio del­l’apprendimento è talvolta quello di fornire una sicurezza, una fiducia nella tecnica, nelle posture che, se sono magnifiche in foto o sui tatami, non corrispondono ad alcuna realtà nella vita di tutti i giorni. Trovare la postura giusta dipende dal corpo di ciascuno. Fin troppi praticanti cercano, lavorando con accanimento, di modellare il loro corpo per renderlo con­forme all’idea che si sono fatti della loro arte, o più semplicemente dell’efficacia che spera­no di ottenere. Si prende in considerazione l’estetica dell’arte, e di conseguenza se ne per­de la profondità. Si vede il lavoro compiuto ma non ci si rende conto delle deformazioni ac­quisite a causa di questo lavoro. Ci sono tanti allievi che ripetono lo stesso esercizio un numero incredibile di volte, la stessa tecnica, sperando così, imitando semplicemente il maestro o il professore, di arrivare alla padronanza della propria arte, mentre seguono la via della deformazione senza rendersene conto. Non bisogna stupirsi del numero di inci­denti o di disabilità che ne derivano. Quanti non possono più praticare a causa di un ginoc­chio, di un gomito, di un polso, o della loro schiena mentre sono ancora giovani e pieni di energia?

Noguchi Haruchika Sensei 1911-1976 fondatore del Seitai

Le Kamae dipendono dal Taiheki

Il Seitai ci fornisce un eccellente strumento, lo studio delle tendenze corporee che Noguchi Haruchika Sensei ha chiamato Taiheki (体癖). È Tsuda Sensei che ce ne dà una prima de­scrizione, benché sommaria, ma era già una rivelazione, al momento della pubblicazione del suo libro Il Non-fare1 agli inizi degli anni Settanta. Egli ha poi completato questo insegnamento nei libri che seguirono nel corso degli anni, senza smettere di apportare degli esempi che ci permettevano di meglio comprendere i Taiheki. Anche la lettura dei testi di Noguchi Sensei ci ha permesso di approfondire la conoscenza dei comportamenti umani e soprattutto delle loro relazioni con il corpo. La comprensione dei movimenti del corpo degli individui permette di guidare i debuttanti verso una postura migliore, senza che si deformino. Siccome ci vorrebbe un libro intero per spiegare questo insegnamento a chi non conosce l’argomento, sono obbligato a fornire solo qualche indicazione, senza entrare nel dettaglio.
La classificazione dei Taiheki messi a punto da Noguchi Sensei si basa sul movimento in­volontario umano. Non si tratta di una tipologia che permette di inserire gli individui in ca­selle predefinite, ma di svelare le tendenze comportamentali abituali tenendo conto delle interpenetrazioni che possono esistere tra queste.
Questa classificazione comprende sei gruppi: i primi cinque sono in relazione con una ver­tebra lombare, l’ultimo gruppo non è in relazione con la colonna vertebrale, ma con uno stato generale del corpo. Ogni gruppo è suddiviso, a seconda dell’aspetto Yang o Yin, in due sottogruppi o tipi, detti “attivo” e “passivo”. Per ben comprendere l’interesse di un tale studio, ho scelto alcuni esempi che alla luce dei Taiheki mi sembrano più esplicativi di altri.

Trovare la giusta postura dipende dal corpo di ciascuno.

Taiheki, il rivelatore

All’interno della classificazione, il primo gruppo è anche chiamato «gruppo verticale» ed è in relazione con la prima vertebra lombare. La sua energia tende a polarizzarsi al cervello.
Il tipo 1, ad esempio, è estremamente sicuro di sé in rapporto alla Kamae, egli adotta una posizione assolutamente definitiva, è capace di spiegarla a tutti, con molta logica. Anche se la sua esperienza è minore, si fa immediatamente un’idea della cosa e non demorde. I suoi talloni hanno la tendenza a sollevarsi dal suolo a causa della tensione che ha alle cer­vicali, egli svilupperà, ad esempio, una teoria secondo la quale si può saltare più rapida­mente e più lontano in caso di attacco e rifiuterà tutte le contraddizioni, fino al momento in cui non sorgerà un’altra idea che gli sembrerà essere più brillante o più giudiziosa.
Il tipo 2 sa tutto sulle Kamae relativamente a quasi tutte le arti marziali, le origini storiche, il valore di ciascuno e i maggiori difetti, l’apporto di ogni maestro. Conosce anche delle sto­rielle che illustrano le sue affermazioni, è un pozzo di conoscenza che non esita a com­pletare non appena sente una mancanza da qualche parte nella sua argomentazione o nei suoi riferimenti.

Il secondo gruppo è denominato «gruppo laterale» ed è in relazione con la seconda verte­bra lombare. La sua energia tende a polarizzarsi sull’apparato digerente
Il tipo 3 è un “bon vivant”, nel momento in cui pratica le arti marziali sceglie il suo club più in funzione dell’ambiente che dell’efficacia dell’arte insegnata o della notorietà del maestro. Tutte queste storie sulla postura, sulla guardia, non lo interessano che molto poco, egli ha la sua piccola opinione in proposito come d’abitudine, a lui piace o non piace, vale a dire gli va bene o no.
Il tipo 4 al contrario è molto riservato, è difficile sapere cosa pensi. Affabile, raramente esprime la propria opinione, anche se si instaura un dibattito sul valore delle diverse Ka­mae, non ha opinioni vere e proprie, tutto gli sembra possibile in funzione delle circostan­ze. Egli rientra piuttosto nel genere del diplomatico senza eccessi.

Il terzo gruppo è denominato «gruppo polmonare» o «gruppo avanti-indietro» ed è in rela­zione con la quinta vertebra lombare. La sua energia tende a polarizzarsi sull’apparato re­spiratorio.
Il tipo 5 non ama discutere per niente, una guardia deve avere un senso pratico, o è effica­ce o non lo è. Occorre verificare, e se funziona andare avanti… Schivare non è vera­mente il suo forte, preferisce le tecniche in Omote piuttosto che quelle in Ura. A causa del­la sua tendenza ad appoggiarsi sulla quinta lombare le sue spalle si portano in avanti e lo incitano ad agire. È facilmente combattivo, ma sa preservarsi delle vie di fuga in caso di bi­sogno.
Il tipo 6 ha troppa tensione alle spalle per poter agire in maniera semplice. Quando questa tensione si rilassa libera una enorme quantità di energia che parte in tutte le direzioni e che egli stesso non riesce a gestire. Di fronte a lui non è possibile alcuna guardia, è com­pletamente ingestibile ed imprevedibile col rischio di mettersi egli stesso in pericolo.

Il quarto gruppo è denominato «gruppo torsione» ed è in relazione con la terza vertebra lombare. La sua energia tende a polarizzarsi sull’apparato urinario.
Alcuni Taiheki possono a priori sembrare predisposti ad una buona guardia, come nel caso del «gruppo torsione» (tipo 7 o 8) poiché per difendersi adottano istintivamente un genere di postura, piuttosto di profilo, le lombari inarcate, un piede avanti etc. Questa po­stura può sembrare ideale, per una posa o su una foto. Ma messa da parte la precisione del posizionamento e i punti di appoggio, la capacità di muoversi dipende, evidentemente e può darsi principalmente, dal mentale. C’è una differenza enorme, che cambierà tutta la questione, tra una torsione di tipo 7 e quella di tipo 8. Per semplificare dirò che il tipo 7 vuole vincere mentre il tipo 8 non vuole perdere. Tutta la postura cambia, l’uno si appresta a slanciarsi in avanti, l’altro a tentare di schivare. Per di più le persone del gruppo torsione hanno una agitazione permanente che in questo caso si rivela nefasta. Agitati, non aspet­tano che una sola cosa: passare all’azione. L’attesa per loro è insopportabile, non resisto­no più, tutto ad un tratto si lanciano, tanto peggio se non è il momento giusto.

Il quinto gruppo è denominato «gruppo pelvico» o «gruppo bacino» ed è in relazione con la quarta lombare. La sua energia non è polarizzata verso una regione del corpo, è tutto il corpo che a partire dalle anche si tende e si rilassa in un colpo solo.
Il tipo 9 è un esempio della continuità, quando pratica le arti marziali tende a farne la sua unica ragione di vita, la tendenza del suo bacino alla chiusura dà una grande forza al suo koshi che gli facilita il compito dell’apprendimento, ma ha una predisposizione al perfezio­nismo che a volte può rasentare l’assurdo. Si preoccupa dei dettagli e perfezionerà le Ka­mae fino al più piccolo elemento, fintanto che la postura non sia perfetta dal suo punto di vista, sarà insoddisfatto, ma è giustamente questa insoddisfazione che, lungi dallo scorag­giarlo, lo spinge in avanti. Niente può opporglisi, solamente la soddisfazione interiore è il suo punto di riferimento. Può, come Ō Sensei Morihei Ueshiba, così come altri grandi mae­stri, arrivare alla conclusione che la posizione naturale è la Kamae ideale perché rap­presenta il superamento di tutte le altre. Ma questa posizione naturale è il frutto dei suoi numerosi anni di lavoro e di allenamento e non una facilità teorica o un rilassamento.
Il tipo 10 invece ritiene che una buona guardia sia indispensabile, che è una garanzia di stabilità e che se si rispettano gli altri non ci saranno conflitti. Il suo bacino aperto ne fa ge­neralmente una persona molto accogliente, possiede una grande sensibilità e la sua intui­zione è micidiale. La sua postura aperta gli impedisce di essere aggressivo, avrà la ten­denza a fare delle tecniche Ura che gli riescono meglio e la sua guardia andrà più nella di­rezione di assorbire l’attacco piuttosto che di respingerlo.

I due tipi restanti, che formano l’ultimo gruppo, sono degli stati del corpo denominati «iper­sensibile e apatico».
Il tipo 11 non riesce ad avere una guardia precisa e definita, la sua ipersensibilità ne fa un essere disturbato che non giunge ad avere dei punti di riferimento. La sua guardia è im­precisa, e addirittura disordinata o confusa e quasi sempre totalmente inefficace. La paura ha la tendenza a liquefargli le gambe. L’Aikido può essere un’attività eccellente nel suo caso, a condizione che l’insegnante comprenda bene le sue difficoltà, e non gli metta fretta, al fine di condurlo verso una sensibilità normale.
Il tipo 12, al contrario, è un esempio di rigidità, ha una guardia molto fisica spesso non molto flessibile, è capace di incassare tutti i colpi senza battere ciglio. Il suo corpo può tal­volta presentare una lassità muscolare a livello delle articolazioni senza che la sua rigidità ne venga diminuita.

È in funzione dei Taiheki che possiamo comprendere l’inutilità di tale o tal’altra postura e dunque di questa o quella Kamae. I punti d’appoggio sono differenti da un individuo all’al­tro, e anche l’energia per spostarsi o semplicemente per muoversi lo sono. È dunque inuti­le proporre un esercizio che, se migliora la postura apparente, distrugge la persona nei suoi fondamenti, o che come minino rischi di provocare delle deformazioni tanto fisiche che mentali.

Kamae e rigidificazione

Tsuda Sensei considerava che la rigidificazione e il rilassamento degli individui facessero parte dei grandi tranelli indotti dalle nostre società moderne, ma egli non ignorava che questi problemi esistessero già da tempo, che sono inerenti alla società umana. Nel suo li­bro La Via degli dei2 riferisce un aneddoto sulle Kamae che ho trovato ancora una volta molto significativo. È significativo dei rischi in cui l’immaginazione può fare incorrere, an­che a delle persone del mestiere come i Samurai:

«La contrazione involontaria si rinforza man mano che l’immaginazione si riempie di paura. La paura non rimane soltanto nella testa. Paralizza tutto il corpo. Soprattutto i polsi perdono flessibilità e le braccia si desensibilizzano. È quello che è successo a due samurai che si battevano in un duello, di cui ho letto il racconto da qualche parte. Tenevano la spada a due mani e si fronteggiavano, a diversi metri di distanza l’uno dall’altro. A questa distanza erano ancora fuori pericolo, qualsiasi cosa facessero, ma già il loro volto era pallido. Pro­babilmente erano madidi di sudore freddo. Sono rimasti lì, alla stessa distanza, per un cer­to tempo. Alla fine si sono avvicinati, dopo poco ce n’era uno che giaceva per terra e l’altro che stava in piedi. Il combattimento era finito. Ma il vincitore rimaneva lì, incapace di mol­lare la spada, perché le dita si erano contratte sull’impugnatura. La contrazione era tale che gli risultava difficile rilassarle.»

La concentrazione e l’attenzione non devono essere rilasciate in alcun caso

Se si vuole evitare la rigidificazione che può essere provocata da guardie quando queste non ci corrispondono, o quando i condizionamenti che esse impongono ci deformano, c’è solo il buon senso e la ricerca personale verso l’equilibrio che possono permettercelo. Non ci sono soluzioni definitive per tutti i problemi e per sempre.

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Articolo di Régis Soavi pubblicato in Dragon Magazine (speciale Aikido n° 23) nel mese di gennaio del 2019.

Note:

1. Itsuo Tsuda, ll Non-Fare, Yume Editions, 2014.
2. Itsuo Tsuda, La Voie des dieux, Le Courrier du Livre, 1982, p. 60.

foto di Régis Sirvent e Sara Rossetti

Seitai

I principi Seitai, che si possono perfino assumere la qualifica di “filosofia Seitai” – modo di vedere, di pensare il mondo – furono elaborati da Haruchika Noguchi (1911-1976) nella prima metà del ventesimo secolo. Per riassumere brevemente (!), il Seitai è un “metodo” o una “filosofia” che include il Seitai soho, i Taiso, il Katsugen undo, il Katsugen soho, e il Yukiho. Pratiche che si completano, si interpenetrano, e costituiscono la vastità del pensiero Seitai di Haruchika Noguchi. Si può anche citare lo studio dei Taiheki (tendenze posturali), l’utilizzo del bagno caldo, l’educazione del subconscio, l’importanza della nascita, della malattia e della morte…
Un’arte di vivere dall’inizio alla fine.

Oggi purtroppo il termine “Seitai” è abusato e designa tutto e il contrario di tutto. Alcuni operatori in terapie manuali si richiamano troppo facilmente al Seitai (Tsuda diceva che ci volevano vent’anni per formare un tecnico seitai!). Quanto ai ciarlatani che propongono di trasformarvi in qualche seduta… non ne parliamo neanche! L’ampiezza dell’arte di vivere, la comprensione globale dell’Uomo nel Seitai sembrano molto lontane. Se resta solo una tecnica da applicare ai pazienti, l’essenziale è perso. Se del Katsugen undo resta solo un momento per “ricaricarsi”, l’essenziale è perso.

Haruchika Noguchi e Itsuo Tsuda andarono entrambi ben oltre nella loro comprensione dell’Uomo. E i semi che hanno seminato, gli indizi che hanno lasciato affinché gli esseri umani potessero evolvere, sono importanti. Si può dunque parlare di una via, di Seitai-dō1? Poiché si tratta di un cambiamento di punto di vista radicale, di uno sconvolgimento, di un orizzonte totalmente differente che si apre.

Riprendiamo il filo della storia…

L’incontro con Haruchika Noguchi: l’individuo nella sua totalità

Itsuo Tsuda incontrò Haruchika Noguchi intorno al 1950. È l’approccio all’essere umano come proposto nel Seitai che l’interessò immediatamente. L’acutezza di osservazione degli individui presi nella loro globalità/complessità indivisibile che Itsuo Tsuda scoprì in Noguchi s’inscriveva nella prosecuzione di ciò che aveva attirato l’interesse di Tsuda in occasione dei suoi studi in Francia presso Marcel Mauss (antropologo) e Marcel Granet (sinologo). Itsuo Tsuda cominciò allora a seguire l’insegnamento di Noguchi e lo fece per più di vent’anni. Ricevette il sesto dan di Seitai.

«Il Maestro Noguchi mi ha permesso di osservare le cose in un modo molto concreto. Attraverso queste manifestazioni di ogni individuo è possibile vedere quello che agisce all’interno. È un approccio completamente diverso dall’approccio analitico: la testa, il cuore, gli organi digestivi, ognuno li considera secondo la sua specializzazione e poi, il corpo da una parte, il lato psicologico dall’altra, non è così? Ebbene, egli ha permesso di vedere l’uomo, cioè l’individuo concreto nella sua totalità.»1

La malattia concepita come un fattore di equilibrio

Tanto più che è precisamente negli anni cinquanta che Haruchika Noguchi, il quale aveva scoperto molto presto le sue capacità di guaritore, decise di rinunciare alla terapeutica. Creò allora la nozione di Seitai, cioè di “terreno normalizzato”.

«La parola ‘terreno’ intesa come l’insieme che costituisce l’individuo, il lato psichico e quello fisico insieme, mentre in Occidente si divide sempre in psichico, e poi fisico.»2

Il cambiamento di ottica di fronte alla malattia fu decisivo in questo riorientamento di Noguchi.

«La malattia è una cosa naturale, è uno sforzo dell’organismo che tenta di recuperare l’equilibrio perduto. […] E’ bene che la malattia esista, ma bisogna che gli uomini si liberino dal suo assoggettamento, dalla sua schiavitù. È così che Noguchi è arrivato a concepire la nozione di Seitai, la normalizzazione del terreno, se si vuole. Non ci si occupa delle malattie, è inutile guarire. Se si normalizza il terreno, le malattie spariscono da sole. E inoltre, si diventa più vigorosi di prima. Addio alla terapeutica. Finita la lotta contro le malattie.»3

Yuki. Itsuo Tsuda. Foto di Eva Rodgold©
Yuki. Itsuo Tsuda. Foto di Eva Rodgold©
Un cammino verso l’autonomia

L’abbandono della terapeutica va anche di pari passo con il desiderio di uscire dai rapporti di dipendenza che legano il paziente al terapeuta. Noguchi desiderava permettere agli individui la presa di coscienza delle loro capacità ignorate, risvegliarli al pieno sviluppo del loro essere. Durante i vent’anni in cui i due uomini si sono frequentati, passarono lunghi momenti a parlare di filosofia, arte, ecc., e Noguchi trovò di cosa nutrire e allargare le sue osservazioni e riflessioni personali nella vasta cultura dell’intellettuale che era Itsuo Tsuda. Si costruì così tra loro un rapporto di arricchimento reciproco.

Itsuo Tsuda fu redattore della rivista Zensei, pubblicata dall’Istituto Seitai e partecipò attivamente agli studi condotti da Noguchi sui Taiheki, “tendenze posturali”. Come riporta un testo di Haruchika Noguchi pubblicato nella rivista Zensei del gennaio 1978, fu Itsuo Tsuda che avanzò l’ipotesi – validata da Noguchi – che il tipo nove, “bacino chiuso”, fosse l’archetipo dell’essere primitivo.4

La messa a punto del Katsugen undo da parte di Noguchi interessò particolarmente Itsuo Tsuda, che colse immediatamente l’importanza di questo strumento, in particolare per quanto riguarda la possibilità di permettere agli individui di ritrovare la loro autonomia, di non aver più bisogno di dipendere da nessuno specialista. Pur avendo coscienza e ammirando la precisione la portata profonda della tecnica del Seitai soho, Tsuda considerò che la diffusione del Katsugen undo fosse più importante dell’insegnamento della tecnica. Fu così che per sua iniziativa in Giappone si costituirono un po’ dappertutto dei gruppi di Movimento rigeneratore (Katsugen kai).

Conferenza d'Itsuo Tsuda. Foto di Eva Rodgold©
Conferenza d’Itsuo Tsuda. Foto di Eva Rodgold©

Itsuo Tsuda ha privilegiato la diffusione del Katsugen undo in Europa come porta d’entrata verso il Seitai.

Oggi, anche in Giappone, il Seitai soho ha preso un orientamento che lo avvicina a una terapia. Un problema: una tecnica da applicare. Il Katsugen undo diventa una specie di ginnastica “light” di benessere, di distensione. Si è lontani dal risveglio dell’essere vivente, della capacità autonoma del corpo di reagire a cui si fa riferimento nel Seitai di Haruchika Noguchi.

L’esercizio di yuki, alfa e omega del Seitai, si pratica ad ogni seduta di Katsugen undo. Così, benché Tsuda non abbia insegnato la tecnica del Seitai soho, ne ha trasmesso l’essenza, l’atto più semplice, questa “non tecnica” che è yuki. Quella che ci serve tutti i giorni, quella che sensibilizza progressivamente le mani, il corpo. Questa sensazione fisica, reale, sperimentabile da tutti, è oggi troppo spesso considerata come una tecnica speciale, riservata ad un’élite. Si dimentica che è un atto umano ed istintivo. Anche la pratica del Katsugen undo mutuale (con un partner) si perde, persino nei gruppi che hanno seguito l’insegnamento di Tsuda. Che peccato! Perché attraverso yuki e il Katsugen undo, il corpo riscopre le sensazioni, quelle che non passano per l’analisi mentale. Questo dialogo nel silenzio, che ci fa scoprire l’altro dall’interno e che ci riporta dunque a noi stessi, al nostro essere interiore. Yuki e Katsugen undo sono per noi strumenti indispensabili, raccomandati da Haruchika Noguchi, per avviarci verso un “terreno normale”.

Ma il tempo passa e le cose si deformano, così come le parole di saggezza di alcuni diventano oppressioni religiose… Poco a poco il Katsugen undo non è niente di più che un momento per “ricaricarsi”, distendersi e soprattutto per non cambiare niente della propria vita, della propria stabilità. Il Seitai, un metodo per dimagrire dopo il parto… Mentre si tratta di un orientamento della vita, di un pensiero globale. Il passo immenso che fece Haruchika Noguchi uscendo dall’idea della terapeutica è un grande passo avanti nella storia dell’umanità. La comprensione globale dell’individuo, la sensibilità al ki, ritrovare sufficientemente sensibilità, centro di se stessi, per ascoltare il proprio corpo e agire liberamente.

Non si tratta neanche di opposizione tra metodi, teorie, culture. Si tratta puramente e semplicemente di evoluzione dell’umanità.

Manon Soavi

Note:
1)  Itsuo Tsuda, Intervista a France Culture, il Maestro Tsuda spiega il Movimento rigeneratore, emissione N° 3, primi anni 80.
2) Itsuo Tsuda, Intervista a France Culture, op. cit., puntata N° 4, primi anni 80.
3) Itsuo Tsuda, Il Dialogo del Silenzio
4)  Sui Taiheki, consultare Itsuo Tsuda, Il Non-Fare, Yume Editions, (2014)

Ukemi : lo scorrere del ki

di Régis Soavi

La caduta nella nostra arte è più di una liberazione, semplice conseguenza di un atto. È lo Yin o lo Yang di un insieme, il Tao. Durante la pratica Tori libera, alla fine della sua tecnica, un’energia Yang: se non vuole ferire il suo partner, gli lascia assorbire questa energia e ritrasmetterla nella caduta.

L’Aikido è un’arte senza sconfitti, un’arte dedicata agli esseri umani, all’intuizione degli esseri umani, alla loro capacità di adattarsi, e il superamento, attraverso la caduta, della contraddizione che ha apportato una tecnica, non è altro che la capacità di adattarsi a questa.
Non insegnare al principiante a cadere vorrà dire creargli un handicap sin dalla partenza, rischiare di vederlo scoraggiarsi, dar luogo a uno spirito di rancore o persino di vendetta.
Ci sono differenti attitudini tra i debuttanti, ci sono quelli che si lasciano andare a corpo morto rischiando di farsi male e quelli che, siccome hanno paura, si contraggono al momento di cadere e ovviamente, se vengono forzati, cadono male e ne subiscono le dolorose conseguenze. La mia risposta a questo problema è la dolcezza e il tempo…

La respirazione durante la caduta

Nel momento in cui si viene sorpresi da un rumore, da un gesto, la prima reazione è quella di inspirare e di bloccare la respirazione, è un funzionamento riflesso e vitale che prepara la risposta e dunque l’azione. La sorpresa innesca una serie di processi biomeccanici totalmente involontari, è già troppo tardi per ragionare. È attraverso l’espirazione che arriverà la soluzione al problema. Alla fine, se non ci sono rischi o se la reazione è esagerata, e il rischio minore, si lascia andare il blocco e il respiro si libera in modo naturale (il famoso uff…) Quando ci troviamo davanti al pericolo, che sia grande o piccolo, siamo pronti all’azione, ad agire grazie al respiro, grazie all’espirazione. I problemi sopraggiungono quando, per esempio, non sappiamo come fare, quando la soluzione non sorge in modo immediato e si resta bloccati nell’inspirazione, i polmoni pieni d’aria, e in preda all’incapacità di muoversi. È un disastro! È pressappoco lo stesso scenario che si profila quando si è debuttanti, il nostro partner fa una tecnica e la risposta logica che ci permetterà di liberarci, e dunque di risolvere questo problema conflittuale, è l’Ukemi. Ma se si ha paura della caduta, se non si è tecnicamente preparati grazie alle numerose capriole avanti e indietro eseguite con lentezza e in tutta morbidezza, si resta con i polmoni gonfi come un pallone da calcio, e se la tecnica arriva fino in fondo, ci si ritrova a terra con più o meno danni.
Il minore dei mali è quello di rimbalzare dolorosamente, come il suddetto pallone, sui tatami.
Imparare a lasciare non appena è indispensabile, non cadere in avanti per precauzione, poiché questo compromette la sensazione di Tori, dandogli una falsa idea del valore della tecnica e spesso anche di sé stesso. Comprendere il momento giusto per espirare e arrivare dolcemente sui tatami senza aria nei polmoni. Poi, quando si è più avanzati, nel caso delle chutes claquées* sarà sufficiente espirare più velocemente e lasciarsi andare perché il corpo trovi da sé la buona posizione per atterrare.

Formazione vecchio stile!

La mia formazione attraverso il Judo agli inizi degli anni sessanta nella periferia di Parigi, è stata molto diversa. Per noi, studenti delle medie, il Judo è stato una maniera di spendere la nostra energia e di incanalare ciò che altrimenti sarebbe finito male, vale a dire in litigi e altre risse di strada. L’allenamento due volte a settimana passava attraverso due cose essenziali: il rispetto assoluto nei riguardi del nostro istruttore e l’apprendimento delle cadute. Era ancora un’epoca durante la quale il nostro istruttore ci insegnava il Judo “giapponese” senza le categorie di peso. Anche se Anton Gessing aveva appena vinto le Olimpiadi, egli si riteneva tradizionalista. Le cadute erano una delle basi dei corsi, rotolare in avanti, indietro, sul fianco, passavamo circa venti minuti ad allenarci prima di iniziare le tecniche e a volte, quando trovava che non eravamo abbastanza concentrati, troppo dispersi, ci diceva: “Rovesciate i vostri kimono per non sporcarli” e uscivamo per una serie di cadute in avanti, nel piccolo vicolo lastricato davanti al dojo. Dopodiché non avevamo più paura delle cadute, o almeno, quelli tra noi che volevano ancora continuare!
Il mondo è cambiato, la società si è evoluta, i genitori di oggi probabilmente non accetterebbero di affidare i loro figli ad un tale “barbaro“, e poi ci sono i regolamenti, le norme di sicurezza, le assicurazioni.
Bob, si chiamava così, si sentiva responsabile della nostra formazione e insegnarci a cadere in ogni circostanza e su tutti i tipi di terreno faceva parte dei suoi valori e il suo dovere era di trasmetterceli.
I corpi sono cambiati, attraverso la nutrizione, la mancanza di esercizio fisico, l’intellettualizzazione a oltranza, come si può far passare il messaggio della necessità dell’apprendimento fisico delle cadute allorché il risultato non si vedrà che parecchi anni dopo? Quale sarà il beneficio, quale sarà il profitto? Tutto è contabilizzato oggi, non c’è tempo da perdere.
È la filosofia dell’Aikido ad attirare i nuovi praticanti, è dunque grazie a questa che si potrà far passare il messaggio di questa necessità.

Il dualismo

L’Aikido, per sua stessa natura e soprattutto per l’orientamento che gli ha conferito O Sensei Morihei Ueshiba, ha tutta un’altra visione della caduta rispetto, per esempio, alla Boxe o al Judo, dove cadere è perdere. Chi guarda dall’esterno, ed è ciò che conferisce a torto un certo carattere alla nostra arte, ha l’impressione che Tori vinca quando Uke cade sui tatami. Psicologicamente è difficile ammettere che non è affatto così. La società non ci offre che raramente degli esempi di comportamento diversi dal dualismo manicheo “O vinci o perdi”. Ed è logico che, a prima vista, non si capisca e non si veda che questo. Per comprendere la cosa in modo diverso bisogna praticare, e inoltre bisogna praticare con in mente una concezione differente, che può essere trasmessa solo attraverso l’insegnamento. Itsuo Tsuda sensei ci dà un esempio della sua pedagogia nel suo libro La via della spoliazione:
«Nell’Aikido, quando c’è scorrere del ki dall’esecutore A verso l’oggetto B, l’avversario C che lo tiene per il polso viene proiettato nella stessa direzione. C viene trascinato e raggiunge la corrente principale che va da A verso B. Ho spesso usato questa messa in scena psicologica. È, per esempio, la formula “Sono già lì”. Quando l’avversario vi afferra i polsi e blocca il vostro movimento, come nell’esercizio di kokyu da seduti, si è inclini a pensare che si tratti di un esercizio di spinta. Se si spinge l’avversario, si produce immediatamente una resistenza da parte di quest’ultimo. Spinta contro spinta, si lotta. Diventa una specie di sumo da seduti.
Nella formula “Sono già lì”, non c’è lotta. Molto semplicemente ci si sposta. Si fa perno su un ginocchio per fare un mezzo giro, l’avversario è trasportato dallo scorrere del ki e si rovescia sul fianco.
Basta pochissimo perché questo esercizio diventi una lotta. Appena vi si aggiunge l’idea di vincitore e di vinto, facciamo degli sforzi esagerati per ottenere il risultato, tutto ciò a scapito dell’armonia d’insieme. Uno spinge, l’altro resiste, abbassandosi oltremisura, e stringendo i pugni per impedire la spinta. Una tale pratica non beneficerà né all’uno né all’altro. L’idea è troppo meccanica.
[…] L’idea di proiezione provoca la resistenza. […] Dimenticare l’avversario pur sapendo che è lì, non è per niente facile. Più si cerca di dimenticare, più ci si pensa. É la gioia nello scorrere del ki che mi fa dimenticare tutto.»**

Il disequilibrio è al servizio dell’equilibrio

L’equilibrio non è affatto rigidità, ecco perché cadere, come conseguenza di una tecnica, può perfettamente permetterci di ritrovare l’equilibrio. È necessario imparare a cadere bene, non soltanto per permettere a Tori di non temere per il suo partner, poiché egli lo conosce e sa sin dall’inizio che le sue capacità gli permetteranno di uscire dalla situazione altrettanto bene di quanto farebbe un gatto in condizioni difficili. Ma anche e semplicemente perché grazie alla caduta ci si sbarazza delle paure che a volte i nostri stessi genitori o i nostri nonni ci hanno inculcato con il loro “precauzionismo” del tipo “Fai attenzione che cadi” a cui segue inevitabilmente il “Finirai per farti male”. Questo imprinting pavloviano ci ha spesso portato alla rigidità e in ogni caso ad una certa apprensione rispetto al fatto di cadere.
In francese la parola cadere ha evidentemente una connotazione negativa, mentre in giapponese la traduzione correntemente più ammessa per il termine Ukemi è “atterrare con il corpo”, e qui si capisce che c’è un mare di differenza. Una volta ancora la lingua ci mostra che i concetti, le reazioni, sono profondamente differenti, e sottolinea l’importanza del messaggio da trasmettere alle persone che debuttano nell’Aikido. Senza essere specificatamente linguisti, né traduttori di giapponese, la comprensione della nostra arte passa anche attraverso lo studio delle civiltà orientali, delle loro filosofie, dei loro gusti artistici, dei loro codici. A mio avviso, non è possibile sradicare l’Aikido dal suo contesto, nonostante il suo valore di universalità, si deve andare a cercare in quelle radici e dunque nei testi antichi. Una delle basi dell’Aikido si trova nella Cina antica, più precisamente nel Taoismo. Durante un’intervista con G. Erard, Kono sensei rivela uno dei segreti dell’Aikido, che mi sembra essenziale benché piuttosto dimenticato al giorno d’oggi: egli aveva domandato a O Sensei Morihei Ueshiba «“O Sensei, com’è che noi non facciamo la stessa cosa che fa lei?” O Sensei ha risposto sorridente: “Io comprendo lo Yin e lo Yang, voi no!”».***

Proiettare per armonizzare

Tori, e questa è una peculiarità della nostra arte, può guidare la caduta del suo partner in modo che questi possa approfittare dell’azione. Itsuo Tsuda ci parla di quello che aveva sentito quando veniva proiettato da O Sensei: “Quello che posso dire in base alla mia esperienza è che, con il Maestro Ueshiba, il mio piacere era così grande che avevo sempre voglia di ricominciare. Non ho mai sentito alcuno sforzo da parte sua. Era talmente naturale che, non solo non sentivo alcuna costrizione, ma cadevo senza saperlo. Conosco l’infrangersi delle grandi onde sulla spiaggia che portano via e fanno rotolare. Certo, si prova un certo piacere, ma con il Maestro Ueshiba si trattava di altro ancora. C’era serenità, grandezza, Amore.”****
C’è una volontà, cosciente o meno, di armonizzare il corpo del partner. In questo caso possiamo parlare di proiezione. È il caso di dire che l’Aikido non è più nella marzialità, ma nell’armonizzazione dell’umanità. Per realizzare quest’ultima è necessario aver abbandonato tutte le idee di superiorità, di potere sull’altro, o ancora tutte le attitudini vendicative, e avere invece il desiderio di dare una mano al partner per permettergli di realizzarsi, senza che egli abbia bisogno di ringraziare chicchessia. Perché questo si realizzi è indispensabile la fusione di sensibilità con il partner: è questa fusione che ci guida, che ci permette di conoscere il livello del nostro partner e di lasciarlo al momento giusto se è un debuttante, o di sostenere il suo corpo se il momento è adatto per un superamento, permettergli di cadere più lontano, più rapido, o più alto. In ogni caso il piacere è garantito.

L’involontario

Non è possibile calcolare la direzione della caduta, la sua velocità, la sua forza, né tanto meno il suo angolo di atterraggio. Tutto questo passa a livello dell’involontario o dell’inconscio, se si preferisce, ma di quale inconscio stiamo parlando? Si tratta di un inconscio liberato di tutto ciò che lo ingombrava, di tutto ciò che gli impediva di essere libero, ecco perché O Sensei ricordava così spesso che l’Aikido è un Misogi, praticare l’Aikido vuol dire realizzare questa pulizia del corpo e dello spirito. Quando si pratica in questa maniera non ci sono incidenti al dojo, è la via adottata da Itsuo Tsuda sensei e le indicazioni che dava ci conducevano in questa direzione. Questo fa della sua Scuola una Scuola particolare. Altre vie non solo sono possibili, ma anche corrispondono certo maggiormente, o meglio, alle aspettative di numerosi praticanti. Leggo molti articoli nelle riviste o nei blog nei quali ci si inorgoglisce per la violenza o per la capacità di risolvere i conflitti attraverso la violenza e l’indurimento, e questo non mi sembra essere il cammino indicato da O Sensei Morihei Ueshiba, né dai Maestri che ho avuto la fortuna di conoscere e, in particolare, Tsuda sensei, Noro sensei, Tamura sensei, Nocquet sensei, o altri ancora attraverso le loro interviste, come Kono sensei.
L’Ukemi ci permette di comprendere meglio fisicamente i principi che governano la nostra arte, che ci guidano verso un superamento del nostro piccolo essere, del nostro piccolo mentale, per intravedere qualcosa di più grande di noi, fare corpo con la natura della quale siamo uno degli elementi.

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Articolo di Régis Soavi pubblicato in Dragon Magazine (speciale Aikido n° 22) nel mese di ottobre del 2018.

NOTE
*. Cadute in avanti fatte senza rialzarsi, cadendo sul fianco assorbendo la caduta battendo la mano al suolo.
**. Itsuo Tsuda La via della spoliazione, 2016 Yume Editions pag. 176-180
***. Guillaume Erard, Entretien avec Henry Kono: Yin et Yang, moteur de l’Aikido du fondateur, 22 aprile 2008, www.guillaumeerard.fr
****. Itsuo Tsuda, La via della spoliazione, Yume Editions, pag. 184

Seitai e vita quotidiana #4

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Uscire dall’ombra

Di Manon Soavi

Ho scoperto tardi di essere una «ragazza». Certo lo sapevo, ma non aveva nessuna importanza, nessun impatto sulla mia vita, sui miei rapporti e sulla mia pratica dell’Aikido. Non avevo coscienza, al contrario della maggior parte delle mie concittadine, di essere «una ragazza» prima di essere un «individuo».  Ciò che spiega in parte il fatto di essere cresciuta al di fuori di questi schemi onnipresenti è che non sono mai andata a scuola. I miei genitori avevano scelto una strada diversa, era una decisione rivoluzionaria, si trattava di una non sottomissione alla scuola «obbligatoria» come ne parla Catherine Baker nel suo libro (1)…

Certo questa formattazione delle donne non avviene solo nell’ambiente scolastico, ma anche con la famiglia, le frequentazioni, i media e la cultura in generale. In una famiglia è sempre alle bambine che si dice che sono “così carine, così graziose”. Che si tratti di un Keikogi di judo o di un tutù rosa, la si veste come fosse una bambolina. È così comune, così scontato, “come il naso in mezzo al viso”(2), che non lo vediamo più come un problema. Che male c’è a fare un complimento a una bambina, o a un neonato, sugli abiti, i suoi riccioli o il suo sorriso? Ebbene, è proprio per l’importanza odierna attribuita alla bellezza e all’apparire che s’impara nella prima infanzia e che marchia indelebilmente. È con tutte queste osservazioni, questi giocattoli rosa e questi sorrisi, che si insegna alle future donne il loro ruolo tradizionale: piacere e provare piacere a piacere. L’autrice Mona Chollet lo descrive così: “Le conseguenze di questa alienazione [per le donne] sono lungi dal limitarsi ad essere una perdita di tempo, di soldi e di energia. La paura di non piacere, di non corrispondere alle aspettative, la sottomissione al giudizio esterno, la certezza di non essere mai abbastanza degne da meritare l’amore e l’attenzione degli altri traducono e amplificano allo stesso tempo un’insicurezza psichica e una autosvalutazione che estendono il loro effetto a tutti gli ambiti della vita delle donne.”(3)


Per quanto mi riguarda, essendo sfuggita a questa situazione nella mia prima infanzia, l’ho scoperta solo nell’adolescenza, rendendomi conto con stupore che mi si vedeva e mi si parlava prima di tutto come a “una ragazza”! Ovviamente mi era insopportabile e mi sono ribellata, come altre donne, contro questo trattamento. Purtroppo nessuno può sfuggire completamente a una cultura, a una società, ne faccio parte e questo riguardava anche me. Certo la situazione delle donne occidentali non si può paragonare a quella di altri paesi in cui le donne non hanno alcun diritto. Cionondimeno, è una ragione per non continuare ad evolvere? Poiché se le donne soffrono di questa situazione, che loro stesse perpetuano educando instancabilmente le proprie figlie e i propri figli a riprodurre gli stessi schemi, è l’umanità intera ad essere perdente in questo disequilibrio. Se gli uomini possono essere considerati come degli “oppressori” penso che sono le donne che hanno in mano le chiavi per fare uscire la nostra società da questo vicolo cieco. Questa frase di Kobayashi Sensei, “la libertà si esprime muovendosi là dove è possibile”, (4) mi sostiene nel pensiero che sta alle donne esercitare la propria libertà. Sta a noi non riprodurre eternamente questa storia. Ed è rispetto a questo, esattamente a questo che, per me, il tema si ricollega a quello dell’Aikido.

Aikido, una terza via

L’Aikido può essere una risposta a questo vicolo cieco del “combattere o sottomettersi” che incontrano le donne. Perché l’Aikido è un’arte marziale in cui non c’entra il combattimento.
Possiamo osare il termine Non-Arte Marziale? Sono molti i maestri e i grandi esperti che lo ripetono (ancora recentemente Steve Magson, allievo di Chiba Kazou Sensei su Aikido Journal): è ridicolo fare la domanda sull’“efficacia” dell’Aikido in un “vero combattimento”. Non vuole dire nulla (ciò non vuol dire che si debbano fare cose senza senso, ovviamente). Ma se un esperto di un alto livello marziale può scrivere questo senza che si dubiti del valore di ciò che fa in Aikido, una donna che dice la stessa cosa sarà subito sospettata di non essere all’altezza, di non essere abbastanza capace.
Tuttavia l’argomento riguarda proprio le donne, perché ci confrontiamo sempre aspramente con la questione del combattimento come situazione dualista, anche se non si tratta di battersi a pugni, ma di un combattimento sociale e culturale. Inoltre siamo dalla nascita delle potenziali vittime di violenze. Forse ne sfuggiremo, ma allora saremo l’eccezione. Tutte le donne vivono sapendosi vittime un giorno o l’altro. Quando vogliamo esprimerci, esercitare un mestiere, siamo sempre obbligate a dimostrare il nostro valore, il nostro diritto ad essere nel posto in cui siamo, per tutta la vita. Ed è proprio l’Aikido a uscire completamente da questo schema! Non ci sarà né vincitore, né vinto. L’Aikido è come un’altra dimensione in cui i nostri valori non contano più. Se è vissuto in un certo modo può essere uno strumento per praticare, da essere umano a essere umano, senza distinzione. Régis Soavi Sensei dice dell’Aikido che “è una scuola di vita, una scuola che risveglia la vita di coloro che lo praticano. Lungi dall’essere una corda in più al nostro arco, è qui per rimettere in discussione le false convinzioni e i sotterfugi che ci propone la nostra società.”(5). Mi sembra che anche Cognard Sensei vada in questo senso quando parla di un rituale Aiki, che potrà cambiarci al punto da superare la storia che legittima la violenza da secoli. È un peccato che le donne non s’impadroniscano di più di questo strumento, di quest’arte, per uscire dalla loro sottomissione, senza scimmiottare gli uomini di potere, bensì prendendo una terza via. Là dove nessuno le aspetta.
Questa direzione mi accompagna dall’infanzia, ovviamente facendo un percorso fuori dal sistema scolastico, ma anche praticando l’Aikido da quando avevo sei anni. Non dico che riesco sempre a trovare la strada, ma ci lavoro. Ogni giorno mi ripropongo di allenarmi a prendere un’altra strada, a uscire dalle situazioni in un altro modo. Pratico avendo come maestro mio padre. È una fortuna e allo stesso tempo non è facile. L’ho sempre visto davanti a me, su questo cammino. È da tanto tempo su questa strada, già da prima che nascessi, a volte ho avuto l’impressione che fosse un orizzonte insuperabile in Aikido. Con benevolenza, ma con un’incredibile fermezza, mi ha guidata, tenuta per mano, senza concessioni, ma lasciando lavorare il tempo. Oggi cammino affianco a lui, insegno anch’io l’Aikido… e capisco meglio la mia fortuna. Vorrei incitare altre donne (senza escludere ovviamente gli uomini) a praticare quest’arte nello spirito che conosco, quello della Scuola Itsuo Tsuda. E a praticare abbastanza a lungo, perché c’è bisogno di tempo, non possiamo cambiare una cultura in qualche anno. Possiamo acquisire qualche tecnica, forse un po’ di fiducia in se stessi. Per orientarsi veramente in modo diverso ce ne vorrà di più.
Il primo passo è la pratica quotidiana, almeno regolare, che ci riporta a noi stessi. Scrivendo su un soggetto in apparenza completamente diverso (la calligrafia), il sinologo J.F. Billeter ce ne dà una testimonianza di una chiarezza ammirabile con delle osservazioni riscontrabili anche nella pratica dell’Aikido:
“Nel mondo attuale, l’esercizio ci riporta a noi stessi ridandoci il gusto del gesto gratuito. Dettata dalle macchine, la nostra attività quotidiana si riduce sempre di più a dei movimenti programmati, frutto di addestramento, compiuti nell’indifferenza, senza la partecipazione dell’immaginazione, né della sensibilità. La pratica rimedia a questa atrofia del gesto, risvegliando le nostre capacità intorpidite. Ci ridà il gusto del gioco, richiama alla vita delle attitudini che, anche se non immediatamente “utili”, non sono meno essenziali. Siccome è il più evoluto tra gli animali, l’uomo ha bisogno di giocare di più di qualsiasi altra specie per salvaguardare il proprio equilibrio. L’esercizio modifica anche la nostra percezione del tempo. Nella vita quotidiana, ritorniamo ininterrottamente al passato e ci proiettiamo nell’avvenire, saltiamo dall’uno all’altro senza poterci fermare nel momento presente. Per questo motivo siamo perseguitati dal sentimento che il presente ci sfugga. Facendoci coincidere con noi stessi, l’esercizio al contrario sospende la fuga del tempo. Quando maneggiamo il pennello, il momento presente sembra staccarsi dalla catena che lo legava al passato e al futuro. Assorbe in sé tutta la durata. Si amplifica e si trasforma in un vasto spazio di tranquillità. Non è più sottomesso allo scorrere del tempo, ma entra in risonanza con i momenti della stessa natura di cui abbiamo fatto l’esperienza ieri, l’altro ieri e i giorni precedenti. Questi momenti si susseguono, creano una continuità differente, una specie di grande viale maestoso che attraversa il tempo disordinato delle nostre occupazioni quotidiane. La nostra vita tende a riorganizzarsi intorno a questo nuovo perno e l’incoerenza delle nostre attività esterne smette di infastidirci. L’esercizio quotidiano adempie la funzione di un rito.”(6)Manon Soavi Jo stage été femmes aikido

Ritrovare la sensazione

Perché siamo arrivati a questo punto? Secondo Tsuda Sensei è la tendenza del mondo di oggi che tende a privilegiare l’ipertrofia cerebrale e il volontarismo a discapito di ciò che è vivo, egli diceva: “Non rifiuto di capire il carattere essenziale della civiltà occidentale: è una sfida del cervello umano all’ordine del mondo, uno sforzo della volontà per fare indietreggiare i limiti del possibile. Che si tratti di sviluppo industriale, di medicina o delle Olimpiadi, questo carattere predomina. È un’aggressione contro la natura. L’uomo superbo agisce, pur senza saperlo, contro natura. La vita patisce, a scapito delle nostre conoscenze e dei nostri averi accresciuti.” (7)
Ed è proprio questo il problema. Ci distacchiamo dalle nostre sensazioni, dalla sensazione di ciò che c’è di vivo in noi. Le donne si lasciano coinvolgere in situazioni non adeguate a loro, anche perché non percepiscono più la propria natura profonda. Troppo occupate a riuscire e a combattere, il loro istinto, che dovrebbe badare alla loro vita, non reagisce più. Si è atrofizzato. Anche con i propri bambini le donne di oggi hanno difficoltà a sentire, a sapere cosa fare e fanno appello alla scienza e ai libri affinché dicano loro come agire. Ascoltare il proprio neonato e ascoltare la propria intuizione, è superato, è arcaico! E dopo secoli in cui essere madre era il solo orizzonte delle donne rispettabili, oggi siamo riusciti a invertire l’ordine. Oggi se si è “solo” mamma a tempo pieno è patetico! Che progresso!
Anche in questo caso l’Aikido ci rimette di fronte alle nostre sensazioni. Non possiamo calcolare un movimento intellettualmente. Quando arriva un attacco bisogna muoversi, è troppo tardi per pensare. Bisogna sentire il proprio partner per potersi muovere nel modo giusto, adeguato. Spesso siamo (uomo o donna) come la famosa tazza troppo piena di cui parla lo Zen, che trabocca se si aggiunge del tè. Siamo troppo agitati e pieni di noi stessi per percepire l’altro. Non parliamo neanche di capirlo! È anche il senso del Non-fare di cui parlava Tsuda Sensei. Ci vuole il vuoto, bisogna cominciare dall’ascolto. Le donne per prime dovrebbero cominciare dall’ascoltare se stesse. L’ascolto del loro corpo nell’Aikido tutti i giorni è una riscrittura del loro vissuto. Rimparare a darsi fiducia, ritrovare la fiducia in ciò che dice il loro corpo.
Hino Sensei fa la stessa constatazione, parla dell’essere umano diventato “insensibile e incapace”(8). Deplora la flagrante mancanza di percezione di ciò che succede nell’altro. Che gli si prenda il polso o che si discuta con lui, la sensazione è scollegata. L’intuizione non funziona più. Ci si accontenta di un “Ciao, come va? – Bene, e tu?”, che superficialità! Se si è sensibili basta a volte uno sguardo, una respirazione per sentire l’altro, per sapere se è contento o triste, se si è svegliato male o se è in forma. Ma a forza di rapporti stereotipati si perdono di vista i veri rapporti umani. Anche su questo alcuni maestri ci hanno lasciato delle indicazioni per ricollegarci con noi stessi. Tsuda Sensei parlava dell’intuizione e dell’autenticità dei rapporti con il proprio figlio. Poiché se nella ricerca di sensazioni e di esperienze intense, alcuni praticanti di arti marziali fantasticano sugli Uchideshi dei maestri del passato, sulle esperienze che si possono vivere sotto una cascata gelida, sulla disponibilità totale per un maestro ecc., c’è un’esperienza estrema che una donna può attraversare, un’esperienza di vita simile a quella di cui parla Noro Sensei che è stato Otomo di Ueshiba Morihei. Ne sono testimone, assomiglia molto a questo: “Se dorme, bisogna vegliare sul suo sonno. Se si sveglia la notte, bisogna essere pronti a rispondere a ciò di cui ha bisogno. Se si annoia, dovete distrarlo. Se si ammala, bisogna occuparsi di lui. Bisogna preparargli il bagno, i pranzi e sbarazzare tutto non appena cambia attività. […] Si tratta ovviamente di adattarsi e anche di diventare capace di anticipare i desideri molto precisi così da poter essere notte e giorno, sveglio o no, in armonia totale.” (9)
In armonia totale con chi? Con il proprio neonato certo se si tratta di una madre o di un padre! Ma perché scegliere un tale trattamento? Visto che esistono talmente tante soluzioni per sollevarci dal peso di avere un bambino. Assomiglia a una schiavitù! Tuttavia, per coloro che vivono quest’esperienza di una comunicazione senza parole, unica, con un altro essere umano, è un insegnamento inestimabile. È probabilmente la realizzazione di questo stato di fusione con l’altro che permetteva l’autentica trasmissione di un maestro, la trasmissione dello spirito di un’arte.
Quest’intensità di vita è ricercata dai praticanti di arti marziali! Purtroppo quando si tratta di una donna che la vive con il suo bambino questa è relegata al livello di compito domestico, che può fare qualunque baby-sitter mal pagata. Tsuda Sensei parlava dell’infanzia come del solo ambito in cui si poteva ancora fare un’esperienza che può sembrare impossibile. Diceva anche che “sapersi occupare di un neonato [era] l’apice delle arti marziali”! Anche in questo caso, se le donne se ne rendessero conto, realizzerebbero tutto il potenziale della forza nascosta che hanno? Smetteremmo, allora, di cercare di assimilarsi agli uomini come unica via di realizzazione?Manon Soavi Iai - femmes aikido

Vivere in questo mondo, pur essendo in un altro

Se il ruolo della nostra pratica è l’evoluzione umana, penso che il Dojo ne sia lo scrigno. Un dojo può essere un microcosmo dove abbandoniamo le nostre convenzioni sociali, anche se solo temporaneamente. Tsuda Sensei attraverso i suoi libri e le sue calligrafie ci incita a rimettere in discussione l’ordine stabilito, a scavare al di là dell’organizzazione sociale. Se pratichiamo in una certa direzione, possiamo dimenticare con chi pratichiamo. Se, e solamente se, lasciamo fuori dalla porta i nostri riflessi sociali. Ovviamente è molto difficile all’inizio non portare tutto il proprio bagaglio. È altrettanto difficile per gli uomini che per le donne dimenticare ciò che sono diventati in questo mondo per concentrarsi su ciò che sono interiormente, prima di ogni distinzione di sesso, colore, età, denaro, cultura, ecc. Cercare in noi questa umanità comune richiede di passare attraverso un atto volontario di uscire dagli schemi. Il Dojo, l’ambiente di serenità e di concentrazione che vi regna (che non può trovarsi in una palestra), il sentimento di un dojo intangibile, tutto ciò ci mette in un certo stato d’animo. Lo svolgimento della seduta, con la sua prima parte di movimenti individuali che riporta la respirazione al centro, poi il lavoro con un partner, l’armonizzazione delle respirazioni, l’attenzione alla sensazione. Un insieme che consente al dojo di essere un po’ “fuori” dal mondo, che ci incita a lasciare per passare ad un altro stato durante la pratica. Ivan Illich parla di questo stato di coscienza dicendo: “Non voglio niente tra te e me. [Ho] paura delle cose che potrebbero impedirmi di essere in contatto con te.”(10) In un dojo, spazziamo via queste cose, le convenzioni, le paure che si mettono tra noi e l’altro. Non si tratta di abbandonare la nostra cultura, no, semplicemente di abbandonare le manifestazioni dell’essere sociale per ritrovarci gli uni con gli altri per camminare insieme.
Per fare questo, abbiamo bisogno che le donne si risveglino e escano dall’ombra.

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Articolo di Manon Soavi pubblicato in Dragon Magazine (speciale Aikido n° 22) nel mese di ottobre del 2018.

Note:
1) C.Baker Les cahiers au feu Éd.Barrault, 1988
2) Modo di dire francese.
3) M.Chollet Beauté fatale, Les nouveaux visages d’une aliénation féminine Éd. La Découverte, p.8
4) A.Cognard Rituel et Symbole Dragon Magazine Spécial Aïkido n°19, gen. 2018, p. 22
5) R.Soavi Mémoire d’un Aïkidoka Dragon Magazine Spécial Aïkido n°19, gen. 2018, p. 60
6) J.F.Billeter Essai sur l’art chinois de l’écriture et ses fondements Éd.Allia, 2010, p. 164
7) Itsuo Tsuda, Même si je ne pense pas Je Suis, Le Courrier du Livre 1981, p. 13.
8) H.Akira Don’t think, listen to the body! 2017, p. 226
9) P.Fissier Chroniques de Noro Masamichi Dragon Magazine Spécial Aïkido n°12 p.77
10) I.Illich Mythologie occidentale et critique du « capitalisme des biens non tangibles » Intervista con Jean-Marie Domenach nella serie « Un certain regard » – 19/03/1972.

Yuki #3

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L’Aikido è un’arte marziale?

di Régis Soavi

Sembra che questa domanda sia ricorrente nei dojo e divida i praticanti, gli insegnanti, così come i commentatori più o meno in tutte le scuole. Dato che nessuno può dare una risposta definitiva, si è ricorsi alla storia delle arti marziali, alle necessità sociali, alla storia dell’origine degli esseri umani, alle scienze cognitive, ecc., incaricandole di fornire una risposta, che, se non risolve il problema, avrà almeno il merito di giustificare quanto viene affermato.

L’Aikijutsu, da quando ha abbandonato il suffisso jutsu per diventare un dō, ha riconosciuto sè stesso come un’arte della pace, una via dell’armonia allo stesso titolo dello Shodō (la via della calligrafia) o anche del Kadō (la via dei fiori). Adottando il termine che significa il cammino, la via, è diventato per questo un cammino più facile? O invece ci obbliga a porci delle domande, a riesaminare il nostro percorso, a fare uno sforzo di introspezione? Un’arte della pace è un’arte dell’accomodamento, un’arte debole, un’arte dell’accettazione, un’arte in cui gli imbroglioni possono godere di una reputazione a basso costo?
Sicuramente è un’arte che ha saputo adattarsi alle nuove realtà della nostra epoca. Ma si deve alimentare l’illusione di un’autodifesa facile, alla portata di tutti, adatta a tutte le tasche e senza la necessità di impegnarsi nemmeno un po’? Si può realmente credere o far credere che grazie a un’ora o due alla settimana, per di più escluse le vacanze (i club sono spesso chiusi), si può diventare un fulmine di guerra o acquisire la saggezza ed essere capaci di risolvere tutti i problemi grazie alla propria calma, alla propria serenità o al proprio carisma? La soluzione allora sta nella forza, il lavoro muscolare e le arti violente? Se c’è una direzione, si trova secondo me, e malgrado quanto ho appena detto, nell’Aikido.

Una Scuola senza gradi

Tsuda Itsuo non diede mai dei gradi a nessuno dei suoi allievi e quando qualcuno gli poneva una domanda sull’argomento, aveva l’abitudine di rispondere: “Non ci sono cinture nere di vuoto mentale”. Si può dire che, con ciò, chiudeva ogni discussione. Essendo stato l’interprete, presso O Sensei Ueshiba Morihei, di André Nocquet sensei in occasione del suo apprendistato in Giappone, in seguito ha fatto da tramite quando stranieri francesi o americani si presentavano all’Hombu Dojo per iniziarsi all’Aikido. Questo gli permise, traducendo le domande degli allievi e le risposte del maestro, di avere accesso a quanto sottintendeva la pratica e ne faceva qualcosa di universale. Ne faceva un’arte al di là della pura marzialità. Ci parlava della postura di O Sensei, della sua incredibile spontaneità, della profondità del suo sguardo che sembrava penetrarlo fino al più profondo del suo essere. Tsuda Itsuo non ha mai cercato di imitare il suo maestro che considerava inimitabile. Si è subito interessato a quello che animava quest’uomo incredibile capace della più grande dolcezza come della più grande potenza. È per questo che, arrivato in Francia, cercò di trasmetterci quello che per lui era l’essenziale, il segreto dell’Aikido, la percezione concreta del ki. Quello che aveva scoperto, e che riassumeva in questa frase, la prima del suo primo libro: “Dal giorno in cui ho avuto la rivelazione del ‘ki’, del respiro (avevo allora più di quarant’anni), non ha smesso di crescere in me il desiderio di esprimere l’inesprimibile, di comunicare l’incomunicabile.”1
Per dieci anni percorse l’Europa per farci scoprire, a noi occidentali, molto spesso troppo cartesiani, dualisti, che esiste un’altra dimensione nella vita. Che questa dimensione non è esoterica ma exoterica come amava dire.

Una Scuola particolare

Le motivazioni che portano a cominciare questa pratica sono evidentemente molto diverse. Se penso alle persone che praticano nella nostra Scuola (la Scuola Itsuo Tsuda), a parte qualcuno, ce ne sono pochi che sono venuti per l’aspetto marziale. D’altra parte, molti di loro non vi hanno visto niente di marziale di primo acchito, benché ad ogni seduta io mostri come le tecniche possano essere efficaci se eseguite in modo preciso, e pericolose se vengono usate in modo violento. L’aspetto marziale deriva dalla postura, dalla respirazione, dalla capacità di concentrazione, dalla verità dell’atto che è l’attacco. Per l’apprendimento, è indispensabile rispettare il livello del proprio partner, ed esercitarsi con forme conosciute.
Ma la scoperta che si può fare praticando le forme predefinite va molto al di là. Si tratta di far fruttare qualcos’altro, di rivelare ciò che si trova al fondo degli individui, di liberarsi dall’influenza sottesa esercitata dal passato e a volte anche dal futuro, sui nostri gesti, sull’insieme dei nostri movimenti, tanto fisici quanto mentali. Del resto nel nostro dojo tutti se ne rendono conto.
La seduta comincia alle 6,45. Il fatto di venire a praticare così presto la mattina (in effetti O Sensei e Tsuda sensei cominciavano sempre le loro sedute alle 6,30) non è né un’ascesi e neanche una disciplina. Alcuni praticanti arrivano verso le 6 ogni mattina, per condividere un caffè o un tè, ed approfittare di questo momento prima della seduta (del pre-seduta), a volte così ricco grazie agli scambi che possiamo avere tra noi. È un momento di piacere, di scambio sulla pratica, così come a volte anche sulla vita quotidiana, che si condivide con gli altri in modo estremamente concreto e non in modo virtuale come la società tende a proporci.
Ovviamente tutto ciò può apparire retrogrado o inutile, ma evita l’aspetto divertimento facile e non favorisce il clientelismo, senza per questo dire che ciò non esista, ciò lo riduce e con il tempo evolve. E questo perché gli esseri cambiano, si trasformano, o più precisamente ritrovano se stessi, ritrovano delle capacità latenti, che pensavano a volte di aver perso o spesso, più semplicemente, che avevano dimenticato.

Yin il femminile: comprendere

Le donne sono così numerose nella nostra Scuola che la parità non è rispettata, gli uomini sono in minoranza, di poco certo, ma lo sono sempre stati. Non vorrei parlare a nome delle donne eppure come fare? Eppure non formano un mondo a parte, sconosciuto agli uomini.
Ma forse, per molti, sì!… Ciononostante penso sia sufficiente per l’uomo prendere in considerazione il suo lato yin, senza averne paura, per ritrovare e comprendere ciò che ci avvicina e ciò che ci differenzia. Forse è per un’affinità personale, una ricerca dovuta al mio vissuto durante gli eventi del maggio ‘68 e a questo schiudersi del femminismo che si rivelò una volta di più a quell’epoca. O forse è semplicemente perché ho avuto tre figlie, che d’altra parte praticano tutte e tre, il risultato, quale ne sia la ragione, è stato che da sempre faccio attenzione al fatto che nei dojo della nostra Scuola le donne abbiano sempre il loro posto legittimo. Vi hanno le stesse responsabilità e non c’è evidentemente nessuna differenza di livello, sia per lo studio che per l’insegnamento. È veramente un peccato dover precisare questo tipo di cose, ma sfortunatamente non vanno da sé in questo mondo.
Malgrado tutto le donne prendono poco la parola, dovrei dire la penna, nelle riviste di arti marziali. Sarebbe interessante leggere degli articoli scritti da delle donne, oppure dedicare uno spazio in “Dragon magazine spécial Aikido” alla visione delle donne sulle arti marziali e sulla nostra arte in particolare. Non hanno niente da dire o il mondo maschile accaparra tutto lo spazio? O forse questi dibattiti di parrocchia sull’efficacia dell’Aikido le annoiano, loro che cercano e spesso trovano, mi sembra, un’altra dimensione, o in ogni caso qualcos’altro, grazie a quest’arte? Di questo “qualcos’altro”, che forse è più vicino alla ricerca di O Sensei, Tsuda Itsuo sensei ce ne dà un’idea in questo passaggio del suo libro La Via della spoliazione:
“Ci si rappresenta forse il Maestro Ueshiba come un uomo fatto di acciaio? È però l’impressione opposta che ho avuto di lui. Era un uomo sereno, capace di una concentrazione straordinaria, ma d’altra parte estremamente permeabile, da scoppi di fragorose risate, con un senso dell’umorismo inimitabile. Ho avuto l’occasione di toccare il suo bicipite. Ne fui stupefatto, era la tenerezza di un neonato. Tutto ciò che si potesse immaginare contrario alla durezza.
La cosa può sembrare strana, ma il suo Aikido ideale era quello di giovani ragazze. Le giovani non sono capaci, a causa della loro natura, di contrarre le spalle quanto i ragazzi. Il loro Aikido è, per questo motivo, più fluido e più naturale.”2

Yang il maschile: combattere

art martial

Siamo educati alla competizione a partire dalla più tenera infanzia, la scuola, con il pretesto dell’emulazione, ha la tendenza ad andare nella stessa direzione, e tutto ciò per prepararci al mondo del lavoro. Ci insegnano che il mondo è duro, che bisogna assolutamente guadagnarsi il proprio posto al sole, imparare a difendersi contro gli altri, ma ne si è così sicuri? Il nostro desiderio non avrebbe tendenza a guidarci in una direzione diversa? E cosa facciamo per realizzare quest’obbiettivo? L’Aikido può essere uno degli strumenti di questa rivoluzione dei costumi, delle abitudini, deve e soprattutto noi dobbiamo fare lo sforzo necessario affinché le radici del male che corrode le nostre società moderne si rigenerino e ridiventino sane? Ci sono stati in passato degli esempi di società in cui la competizione non esisteva, o molto meno del modo in cui esiste oggi, delle società in cui anche il sessismo era assente, anche se non si può presentarle come società ideali. Leggendo gli scritti sul matriarcato nelle isole Trobriand di quel grande antropologo che era Bronislaw Malinowsky si potrà scoprire la sua analisi, trovare delle piste, e forse anche dei rimedi a questi problemi di civiltà che vengono denunciati così spesso.

Tao, l’unione: una via per la realizzazione dell’essere umano

La via, per sua essenza, senza essere idealisti, si giustifica e prende tutto il suo valore dal fatto che normalizza il terreno degli individui. Per chi la segue, essa regola le sue tensioni, dà equilibrio, è tranquillizzante permettendo un diverso rapporto con la vita. Non è ciò che tante persone “civilizzate” cercano disperatamente e che si trova in fin dei conti nel profondo dell’essere umano?
La via non è una religione, anzi è quello che la differenzia dalla religione che ne fa uno spazio di libertà, nel quadro delle ideologie dominanti. Il pensiero al quale la si può assimilare mi sembra essere l’agnosticismo, corrente filosofica poco conosciuta, o piuttosto conosciuta in modo superficiale, ma che permette di integrare tutte le diverse scuole. C’è un buon numero di rituali nell’Aikido che si continuano a seguire senza comprenderne la vera origine (quella da cui attinse O Sensei) o a volte altri rituali che diversi maestri trovarono grazie a pratiche antiche come fece Tamura sensei stesso. Sono state spesso associate alla religione mentre, come si potrebbe verificare, sono le religioni che hanno usato tutti questi antichi rituali, se ne sono appropriate per farne degli strumenti al servizio del loro potere, e anche troppo spesso servono alla dominazione e all’asservimento degli individui.

Un mezzo: la pratica respiratoria

La prima parte nell’Aikido di O Sensei Ueshiba Morihei, lungi dall’essere un riscaldamento, consisteva in movimenti di cui è primordiale ritrovare la profondità. Non è per una soddisfazione intellettuale, né per preoccupazioni integraliste e ancor meno per acquisire dei “poteri superiori”, che li continuiamo, ma per ritrovare il cammino che aveva intrapreso O Sensei. Certi esercizi, come Funakogi undo (movimento detto del rematore) o Tama-no-hirebori (vibrazione dell’anima), hanno un valore molto grande, e quando vengono praticati coll’attenzione necessaria, possono permetterci di sentire al di là del corpo fisico, al di là della nostra sensazione così limitata, per scoprire qualcosa di più grande, di molto più grande di noi. Si tratta di una natura illimitata a cui partecipiamo, nella quale ci immergiamo, che è fondamentalmente ed inestricabilmente legata a noi, e che tuttavia ci è molto difficile raggiungere o anche a volte sentire. Questa concezione che ho fatto mia, non è dovuta ad un rapporto mistico con l’universo, ma piuttosto a un’apertura psicofisica a cui si sono avvicinati molti fisici moderni grazie alla teoria e che cercano di verificare. Non è una cosa che si può apprendere guardando dei video su Youtube, né consultando dei libri di antica sapienza, malgrado la loro innegabile importanza. È qualcosa che si scopre in modo puramente corporale, in modo assolutamente e integralmente fisico, anche se è un fisico allargato a una dimensione inusuale. Poco a poco tutti i praticanti che accettano di cercare in questa direzione la scoprono. Non è legata a una condizione fisica né all’età né ovviamente al sesso o alla nazionalità.

L’educazione

Quasi tutti gli psicologi considerano che l’essenziale di quello che ci guiderà all’età adulta succede durante la nostra infanzia e più precisamente nella nostra prima infanzia. Tanto le buone quanto le cattive esperienze. Bisogna dunque curare in modo particolare l’educazione in modo da conservare il più possibile la natura innata del bambino. Non si tratta in alcun caso di lasciar fare al bambino tutto quello che vuole, né di farne un bambino-re, di diventare il suo schiavo, il mondo lo circonda ed egli ha bisogno di punti di riferimento. Ma molto velocemente, spesso poco dopo la nascita, a volte dopo qualche mese, il bambino viene affidato a persone estranee alla famiglia. Dove sono finiti i genitori? Non riconosce più la voce della madre, il suo odore, il suo movimento. È il primo trauma e ci si dice: “Si riprenderà”. Certo, sfortunatamente non è l’ultimo, tutt’altro. Poi viene il nido, cui segue la materna, la scuola primaria, le medie ed infine la Maturità prima forse dell’università per almeno tre, quattro, cinque, sei anni o ancora di più.
Ma cosa ci si può fare? “È la vita.” mi si dice. Ognuno di questi posti nei quali il bambino passerà il tempo in nome dell’educazione e dell’apprendimento è una prigione mentale. Dalle conoscenze di base alla cultura di massa, quando sarà rispettato in quanto individuo pieno di quest’immaginazione che caratterizza l’infanzia? Gli si insegnerà ad obbedire, imparerà a barare. Gli si insegnerà a essere con gli altri, imparerà la competizione. Riceverà dei voti, si chiamerà ciò emulazione, e questo disastro psicologico sarà vissuto dai primi come dagli ultimi allievi.
In nome di quale ideologia totalitarista si formano i bambini e tutti i giovani alla paura della repressione, alla sottomissione, al disimpegno e alla disillusione? La società odierna nei paesi ricchi non ci propone niente di veramente nuovo: lavoro e tempo libero non sono che dei sinonimi dell’ideale romano di pane e giochi circensi, la schiavitù dell’antichità non è che il salariato di oggi. Una schiavitù migliorata? Forse… con una lobotomizzazione spettacolare, garantita senza fattura, grazie alla pubblicità della merce che ci viene propinata, e il suo corollario: l’iperconsumismo di beni tanto inutile quanto nefasto.
La pratica dell’Aikido per i bambini e per gli adolescenti è l’occasione di uscire dagli schemi che propone il mondo che li circonda. È grazie alla concentrazione che la tecnica esige, una respirazione calma e serena, l’aspetto non competitivo, il rispetto per le differenze, che essi possono conservare o, se necessario, ritrovare la loro forza interiore. Una forza tranquilla, non aggressiva, ma piena e ricca dell’immaginazione e del desiderio di rendere il mondo migliore.

Una filosofia pratica, o meglio, una pratica filosofica

La particolarità della Scuola Itsuo Tsuda viene dal fatto che si interessa più all’individualità che alla diffusione di un’arte o di una serie di tecniche. Non si tratta di creare un individuo ideale, né di guidare chiunque verso qualcosa, verso un modello di vita, con una certa quantità di gentilezza, una certa quantità di amabilità o di saggezza, di ponderazione o di esaltazione, ecc. Ma di risvegliare l’essere umano e di permettergli di vivere pienamente nell’accettazione di quello che è nel mondo che lo circonda senza distruggerlo. Questo spirito di apertura non può che svegliare la forza che preesiste in ciascuno di noi. Questa filosofia ci porta all’indipendenza, all’autonomia, ma non all’isolamento, al contrario, tramite la scoperta dell’Altro, ci porta alla comprensione di quello che è, e al di là di quello che è forse diventato. Tutto questo apprendimento, o piuttosto questa riappropriazione di sé, richiede del tempo, della continuità, della sincerità, al fine di realizzare in modo più chiaro la direzione verso la quale si desidera andare.

Il superamento, ciò che vi è dietro

Quello che mi interessa oggi, è ciò che vi è dietro o più esattamente ciò che vi è al fondo dell’Aikido. Quando si prende un treno si ha un obbiettivo, una destinazione, con l’Aikido è un po’ come se man mano che si avanza il treno cambiasse obbiettivo, come se la direzione diventasse diversa, e allo stesso tempo più precisa. Quanto all’obbiettivo, si allontana malgrado il fatto che si pensi di essersene avvicinati. Ed è a questo punto che bisogna prendere coscienza che l’oggetto del nostro viaggio è nel viaggio stesso, nei paesaggi che vi scopriamo, che si affinano, e a noi si rivelano.

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Articolo di Régis Soavi pubblicato in Dragon Magazine (speciale Aikido n° 21) nel mese di luglio del 2018.

Note

* Itsuo Tsuda, Il Non-Fare, Yume Editions, 2014, p. 11.
** Itsuo Tsuda, La Via della spoliazione, Yume Editions, 2016, p. 161.

La nozione di salute secondo il Seitai #2

Suite des entretiens ou Régis Soavi, qui enseigne et initie les personnes au Katsugen Undo (Mouvement régénérateur) depuis quarante ans, revient  à l’essentiel des thématiques autour du Seitai et du Katsugen Undo. Pour cette deuxième vidéo, c’est la notion de santé selon le Seitai qui est abordée.

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Quelques informations complémentaires :

Le Seitai a été mis au point par Haruchika Noguchi (1911-1976) au Japon. Le Katsugen Undo (ou Mouvement régénérateur) est un exercice du système moteur extrapyramidal faisant partie du SeitaiItsuo Tsuda (1914-1984) qui introduisit le Katsugen Undo en Europe dans les années 70 en disait «Le corps humain est doué d’une faculté naturelle qui réajuste sa condition. Cette faculté […] est du ressort du système moteur extra-pyramidal »

Régis Soavi débute la pratique martiale par le Judo à l’âge de douze ans. Il étudie ensuite l’Aïkido, notamment auprès des maîtres Tamura, Nocquet et Noro. Il rencontre Tsuda Itsuo senseï en 1973 et le suivra jusqu’à son décès en 1984. Régis Soavi devient enseignant professionnel avec l’accord de ce dernier, et diffuse son Aïkido et le Katsugen Undo à travers l’Europe.

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Seitai e Katsugen Undo #1

Beaucoup de choses sont dites et circulent sur le web à propos du Seitai et du Katsugen Undo (ou Mouvement régénérateur). Dans cette série d’entretiens, Régis Soavi, qui enseigne et initie les personnes au Katsugen Undo depuis quarante ans, revient  à l’essentiel pour répondre à cette question « Qu’est-ce que le Seitai et le Katsugen Undo ? ».

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Quelques informations complémentaires :

Le Seitai a été mis au point par Haruchika Noguchi (1911-1976) au Japon. Le Katsugen Undo (ou Mouvement régénérateur) est un exercice du système moteur extrapyramidal faisant partie du Seitai.  Itsuo Tsuda (1914-1984) qui introduisit le Katsugen Undo en Europe dans les années 70 en disait «Le corps humain est doué d’une faculté naturelle qui réajuste sa condition. Cette faculté […] est du ressort du système moteur extra-pyramidal »

Régis Soavi débute la pratique martiale par le Judo à l’âge de douze ans. Il étudie ensuite l’Aïkido, notamment auprès des maîtres Tamura, Nocquet et Noro. Il rencontre Tsuda Itsuo senseï en 1973 et le suivra jusqu’à son décès en 1984. Régis Soavi devient enseignant professionnel avec l’accord de ce dernier, et diffuse son Aïkido et le Katsugen Undo à travers l’Europe.